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62. Illegittimità del licenziamento a seguito del rifiuto di svolgere mansioni dequalificanti

Con ordinanza n. 30543 del 18 ottobre 2022 la Corte di Cassazione Sezione Lavoro si è pronunciata sul licenziamento di una lavoratrice che si era rifiutata di svolgere mansioni dequalificanti.

In particolare, nel caso di specie una dipendente di una società operante nel settore della ristorazione, assunta come cuoca, si era rifiutata di distribuire le merende nelle classi, senza che risultasse impartito un ordine specifico in tal senso e che in quelle occasioni la stessa lavoratrice avesse opposto un rifiuto alle sollecitazioni verbali dei referenti aziendali, avendo per contro cercato un confronto con i responsabili aziendali per una diversa soluzione di tipo organizzativo.

La Suprema Corte ha ritenuto illegittimo e quindi annullabile il licenziamento disciplinare di tale dipendente, che si era rifiutata di svolgere compiti dequalificanti, perché la condotta contestata e posta alla base del recesso da parte dell’azienda può considerarsi lecita e disciplinarmente irrilevante.

Inoltre la Cassazione ha reputato necessario accertare la proporzionalità e conformità a buona fede del rifiuto opposto dalla lavoratrice allo svolgimento di prestazioni inferiori e non pertinenti alla sua qualifica.

In buona sostanza, nel caso in esame il rifiuto della dipendente è stato considerato proporzionato e conforme a buona fede, posto che in concreto la lavoratrice non aveva assunto un atteggiamento di insubordinazione, avendo al contrario cercato, ma invano, un confronto con i responsabili aziendali per una diversa soluzione di tipo organizzativo. Per contro, la datrice di lavoro pretendeva dalla dipendente lo svolgimento di una mansione inferiore alla qualifica di inquadramento in base ad una scelta imprenditoriale imprevedibile e non improrogabile con oggettivi effetti di aggravamento dell’impegno lavorativo della dipendente.

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13. Importanza del pulsante di inoltro dell’ordine online

Con sentenza del 7 aprile 2022 la Corte di giustizia dell’Unione europea ha chiarito che nei contratti conclusi coi mezzi elettronici il consumatore deve considerarsi validamente vincolato solo se sia in grado di comprendere in maniera inequivocabile che sarà obbligato a pagare non appena avrà cliccato sul pulsante di inoltro dell’ordine online.

A tal fine il pulsante di inoltro dell’ordine online deve contenere la dicitura facilmente leggibile “ordine con obbligo di pagare” o una formulazione analoga idonea ad indicare inequivocabilmente che l’inoltro dell’ordine implica l’obbligo di pagare il professionista.

In mancanza di una dicitura del genere sul pulsante d’ordine di un e-commerce, il consumatore non è obbligato a pagare il professionista.

Infatti, l’art. 8 della direttiva europea 2011/83 stabilisce che, quando un contratto è concluso con mezzi elettronici mediante un processo di inoltro di un ordine online comportante un obbligo di pagare a carico del consumatore, il professionista deve rispettare i seguenti obblighi informativi:

  • fornire al consumatore, prima dell’inoltro dell’ordine, le informazioni essenziali relative al contratto;
  • informare espressamente il consumatore che, inoltrando l’ordine, è tenuto a pagare il professionista.

In particolare, nella sentenza in commento la Corte di giustizia dell’Unione europea si è soffermata sul secondo obbligo sopra indicato, osservando in proposito che:

  • gli Stati membri sono autorizzati ad ammettere che il professionista utilizzi qualsiasi altra dicitura corrispondente a “ordine con obbligo di pagare”, a condizione che tale dicitura sia idonea ad indicare inequivocabilmente che l’inoltro dell’ordine online implica per il consumatore l’obbligo di pagare il professionista;
  • qualora la normativa nazionale volta a recepire la direttiva 2011/83 non contenga esempi precisi di formulazioni analoghe a “ordine con obbligo di pagare”, i professionisti dei singoli Stati membri sono liberi di ricorrere a qualsiasi dicitura di loro scelta, purché tale dicitura sia idonea ad indicare inequivocabilmente che l’inoltro dell’ordine online implica per il consumatore l’obbligo di pagare il professionista.

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61. Prescrizione dei crediti retributivi relativi alle ferie

Con sentenza n. 1990 dell’8 settembre 2022 il Tribunale di Milano si è pronunciato sulle seguenti due questioni:

  • la retribuzione corrisposta durante le ferie può essere inferiore a quella ordinariamente riconosciuta al lavoratore?
  • il conseguente credito per le differenze retributive si può prescrivere in costanza di rapporto?

In sintesi, il Tribunale di Milano si è così espresso sulle suddette questioni:

  • la retribuzione percepita dal lavoratore durante il periodo feriale annuale deve essere pari a quella ordinariamente riconosciuta con riferimento alle mansioni svolte ed alla professionalità posseduta;
  • la prescrizione quinquennale dei crediti retributivi conseguenti ad una retribuzione inferiore durante le ferie non decorre in costanza di rapporto, ma solo alla sua cessazione.

In particolare, sul tema della prescrizione, il Tribunale di Milano si è adeguato alla recente sentenza della Corte di Cassazione n. 26246 del 6 settembre 2022 (già commentata nel nostro sito https://ftavvocati.it/index.php/2022/09/15/60-la-prescrizione-dei-crediti-di-lavoro-dopo-la-sentenza-6-settembre-2022-della-cassazione).

Infatti, si deve prendere atto dell’entrata in vigore dal 18 luglio 2012 della legge n. 92 del 2012 (c.d. Riforma Fornero), che ha modificato la tutela reale di cui all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, prevedendo delle ipotesi nelle quali, anche a fronte di un licenziamento illegittimo, la tutela resta solo di tipo indennitario, senza possibilità di reintegrazione, in modo analogo che nella tutela obbligatoria, seppur con importi risarcitori maggiori.

Pertanto, si deve ritenere che a partire dal 18 luglio 2012 i lavoratori, pur dipendenti da azienda sottoposta all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, possano incorrere nel timore del recesso – per la durata della relazione lavorativa – nel far valere le proprie ragioni, a fronte della diminuita resistenza della stabilità del proprio rapporto di lavoro.

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72. Giusta causa per mancato pagamento provvigioni

Con sentenza n. 426 del 22 luglio 2022 la Corte di Appello di Torino ha stabilito che il mancato pagamento delle provvigioni da parte della preponente integra gli estremi della giusta causa di recesso per l’agente.

In particolare, in tale sentenza la Corte di Appello di Torino ha affermato che:

  • nella specie ricorrevano gli estremi della giusta causa di recesso per non avere la preponente adempiuto all’obbligazione principale su di lei gravante omettendo il pagamento delle provvigioni;
  • i ripetuti inadempimenti della preponente non erano riconducibili, se non in minima parte, alla crisi pandemica;
  • i ritardi nel pagamento delle provvigioni già a partire dal 2019 e gli omessi pagamenti delle provvigioni maturate da novembre 2019 a gennaio 2020 non erano evidentemente riconducibili alla pandemia per ragioni temporali. Analogamente l’omesso versamento delle quote FIRR per gli anni 2018 e 2019 non poteva certo essere collegato causalmente alla pandemia, esplosa nel mese di marzo 2020;
  • anche senza considerare il mancato pagamento delle provvigioni nel periodo compreso tra marzo 2020 e giugno 2020, l’inadempimento della preponente era di gravità tale da giustificare il recesso in tronco, poiché il mancato pagamento delle provvigioni ed i reiterati ritardi negli adempimenti funzionali al pagamento delle provvigioni costituivano violazioni del contratto che incidevano sul diritto dell’agente al regolare e puntuale corrispettivo mensile della prestazione lavorativa. Nello specifico, tali condotte riguardavano l’obbligazione principale della preponente nell’attuazione del sinallagma contrattuale e non potevano ritenersi di scarsa importanza, avendo carattere reiterato ed ammontare non del tutto trascurabile.

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60. La prescrizione dei crediti di lavoro dopo la sentenza 6 settembre 2022 della Cassazione

Con la sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022 la Corte di Cassazione si è pronunciata sul problema della decorrenza della prescrizione quinquennale dei crediti di lavoro nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come rimodulato dalla legge n. 92 del 2012 (c.d. Riforma Fornero) e dal D. Lgs. n. 23 del 2015 (c.d. Jobs Act).

Come noto, con le sentenze degli anni ’60 e ’70, la Corte costituzionale aveva dichiarato incostituzionale la decorrenza in corso di rapporto della prescrizione dei crediti di lavoro, per la presenza di ostacoli di fatto, come ad esempio il timore del licenziamento, che potevano sconsigliare il lavoratore dal vantare pretese durante il rapporto di lavoro. Restava ferma la regola della decorrenza immediata della prescrizione quinquennale di crediti di lavoro nei casi in cui fosse assicurata la stabilità del rapporto di fronte al licenziamento ingiustificato o illegittimo, come nel caso dei pubblici dipendenti o dei dipendenti privati soggetti alla disciplina dello Statuto dei lavoratori, che prevedeva il pieno ripristino della situazione antecedente al licenziamento.

Con la L. n. 92 del 2012 e il D. Lgs. n. 23 del 2015 la reintegrazione del lavoratore nella situazione lavorativa antecedente è divenuta un’ipotesi prevista solo in alcuni casi, mentre negli altri casi la sanzione è di tipo meramente indennitario.

Da qui nasce la questione di legittimità sottoposta alla Corte di Cassazione in ordine alla persistenza della decorrenza immediata della prescrizione quinquennale dei crediti di lavoro nel mutato quadro normativo in materia di licenziamenti; e cioè:

In seguito alle modifiche normative introdotte mediante la L. n. 92/2012 ed il D.lgs. n. 23/2015, è possibile affermare la permanenza della stabilità reale del rapporto di lavoro con le conseguenze a ciò connesse in tema di decorrenza dei termini di prescrizione di cui agli artt. 2935 e 2948 n. 4 c.c. in costanza di rapporto?”

La risposta della Corte di Cassazione, diversamente da quella dei giudici di merito, è negativa, sulla base di una valutazione, da parte della stessa Corte di Cassazione, di inadeguatezza della nuova disciplina a scongiurare il timore di un licenziamento ingiusto, che costituirebbe una remora all’esercizio dei crediti del lavoratore in corso di rapporto di lavoro.

Secondo la Suprema Corte, il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro.

In buona sostanza, secondo la sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022 della Corte di Cassazione, il termine di prescrizione quinquennale dei crediti di lavoro nei contratti a tempo indeterminato non decorre durante il rapporto di lavoro, ma solo a far data dalla cessazione del rapporto di lavoro.

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71. Requisiti per il riconoscimento dell’indennità di fine rapporto ex art. 1751 codice civile

Con sentenza n. 24846 del 17 agosto 2022 la Corte di Cassazione si è pronunciata sui requisiti per il riconoscimento dell’indennità di fine rapporto prevista dall’art. 1751 codice civile.

In particolare, in tale sentenza la Suprema Corte ha affermato che: “È noto che nel rapporto di agenzia il diritto all’indennità di scioglimento del contratto – secondo la disciplina dell’art. 1751 c.c. derivante dalla modifica del primo alinea del comma 1 attuata dal D.lgs. n. 65 del 1999, al fine di dare più fedele attuazione alla direttiva comunitaria n. 86/653 del 18 dicembre 1986 – è subordinato alla concorrente presenza sia del sensibile sviluppo degli affari con i clienti esistenti, sia del requisito della permanenza, per il preponente, di sostanziali vantaggi derivanti dall’attività di promozione degli affari compiuta dall’agente”.

Pertanto, nella pronuncia in esame la Corte di Cassazione ha ribadito che, ai fini del riconoscimento dell’indennità di fine rapporto prevista dall’art. 1751 codice civile, devono coesistere entrambi i due requisiti essenziali prescritti da tale norma per il riconoscimento del diritto all’indennità in questione e cioè:

  • l’apporto di nuovi clienti o lo sviluppo della clientela esistente;
  • la permanenza di sostanziali vantaggi per la preponente dagli affari con tali clienti.

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12. Il geoblocking

Nel commercio elettronico il venditore è libero di decidere in quali paesi vendere i suoi prodotti, ma deve evitare di porre in essere misure discriminatorie nei confronti dei clienti, che siano basate – direttamente o indirettamente – sulla nazionalità, sul luogo di residenza o di stabilimento dei clienti.

Infatti, dal 3 dicembre 2018 nell’Unione europea è in vigore il Regolamento UE 2018/302, che contiene misure volte ad impedire nel commercio elettronico i blocchi geografici ed altre forme di discriminazione basate sulla nazionalità, sul luogo di residenza o sul luogo di stabilimento dei clienti.

Il blocco geografico (c.d. “geoblocking”) consiste in una pratica discriminatoria finalizzata ad impedire ad un cliente di acquistare online prodotti o servizi da un sito web basato in un altro Paese UE.

Il Regolamento UE 2018/302 si applica alle vendite online di beni, eccetto a quelle puramente “interne”, in cui tutti gli elementi rilevanti della vendita (ad esempio la nazionalità, la residenza, il luogo di consegna, i mezzi di pagamento) sono limitati ad un solo paese UE. Ad esempio, il Regolamento UE in esame non si applica ad una vendita online in cui il venditore ha sede in Italia, il cliente risiede in Italia, la consegna e il pagamento avvengono in Italia.

Il Regolamento UE 2018/302 si applica sia ai consumatori, sia alle imprese, purché le stesse acquistino online un bene al fine esclusivo dell’uso finale. Di conseguenza, il regolamento in questione non si applica alle imprese che acquistano online un bene al fine della rivendita.

Il Regolamento UE 2018/302 disciplina le tre seguenti tipologie di discriminazioni nelle vendite online: discriminazioni relative all’accesso ai siti internet, discriminazioni realizzate attraverso l’applicazione di differenti condizioni generali di accesso, discriminazioni relative al pagamento.

Discriminazioni relative all’accesso ai siti internet: il Regolamento UE 2018/302 vieta ai venditori online di bloccare o limitare l’accesso dei clienti ai loro siti internet per motivi legati alla nazionalità o al luogo di residenza o al luogo di stabilimento del cliente. Pertanto, ad esempio un venditore online tedesco non può bloccare l’accesso al suo sito internet ad un cliente italiano, così come – stando allo stesso esempio – un venditore online tedesco non può reindirizzare automaticamente il cliente italiano al sito italiano del venditore, senza aver ottenuto il preventivo consenso al reindirizzamento da parte di tale cliente (ad esempio con un apposito banner).

Discriminazioni realizzate attraverso l’applicazione di differenti condizioni di accesso: il Regolamento UE 2018/302 vieta ai venditori online di applicare diverse condizioni di accesso (ad esempio prezzi) per motivi legati alla nazionalità o al luogo di residenza o al luogo di stabilimento del cliente.

Discriminazioni relative al pagamento: il Regolamento UE 2018/302 vieta ai venditori online, nell’ambito dei mezzi di pagamento che si dichiara di accettare sui propri siti internet, di applicare condizioni diverse di servizi per motivi legati alla nazionalità o al luogo di residenza o al luogo di stabilimento del cliente se coesistono le seguenti condizioni: (i) i pagamenti per via elettronica con bonifico, carta di credito bancomat; (ii) sono rispettati i requisiti di autenticazione dell’utente secondo la Direttiva UE 2015/2366; (iii) i pagamenti sono effettuati in una valuta accettata dal venditore online.

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59. Legittimità del licenziamento per giusta causa in caso di violazione di norme penali o del cosiddetto minimo etico

Con ordinanza del 3 giugno 2022 il Tribunale di Lodi si è pronunciato sul principio di necessaria pubblicità del codice disciplinare in caso di condotte violente e minacciose del lavoratore.

In materia di licenziamento disciplinare, il principio di necessaria pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica nei casi in cui il licenziamento sia irrogato per sanzionare condotte del lavoratore che concretizzano violazione di norme penali o che contrastano con il cosiddetto “minimo etico”, mentre deve essere data adeguata pubblicità al codice disciplinare con riferimento a comportamenti che violano mere prassi operative non integranti usi normativi o negoziali.

Nel caso da cui trae origine l’ordinanza in commento, il Tribunale di Lodi ha ritenuto come condotte penalmente rilevanti le offese del lavoratore ai colleghi, lo strattonamento, le urla e le minacce non contenibili, il timore ingenerato nei presenti, nonostante la pluralità di soggetti che hanno cercato di contenere il medesimo lavoratore e di farlo ragionare.

Pertanto, tali condotte costituiscono una grave violazione da parte del lavoratore alla dignità ed incolumità dei propri colleghi, con la conseguenza che esse sono sanzionabili senza che sia necessaria la loro menzione nel codice disciplinare e la pubblicità di tale codice.

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58. Illegittimità del licenziamento in caso di furto di modico valore

Con sentenza n. 17288 del 27 maggio 2022 la Corte di Cassazione si è pronunciata sul tema del licenziamento in caso di furto di modico valore.

In particolare, nella sentenza in commento la Suprema Corte ha confermato la valutazione di non proporzionalità della sanzione in relazione al fatto oggetto di addebito, rappresentato dall’avere il dipendente prelevato uno snack dall’espositore adiacente alla cassa ove operava e di averlo mangiato, senza pagare il corrispettivo di Euro 0,70.

A sostegno della sua decisione la Corte di Cassazione ha affermato che:

  • nell’ambito dei rapporti tra previsioni della contrattazione collettiva e fatti posti a fondamento di licenziamenti ontologicamente disciplinari la consolidata giurisprudenza di legittimità esclude che le previsioni collettive si configurino quale fonte vincolante in senso sfavorevole al dipendente;
  • l’esistenza di una nozione legale di giusta causa (e di giustificato motivo soggettivo) comporta che il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta rientri nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito, attività da svolgere avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, in relazione alla quale la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce solo uno dei possibili parametri cui fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.;
  • in questa prospettiva è stata ritenuta insufficiente l’indagine limitata alla verifica della riconducibilità del fatto addebitato alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l’irrogazione del licenziamento, essendo sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza;
  • le previsioni dei contratti collettivi hanno, infatti, valenza esemplificativa e non precludono l’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore, con il solo limite, nello specifico insussistente, che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione.

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57. Regime semplificato delle comunicazioni di smart working fino al 31 agosto 2022

È stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge 19 maggio 2022, n. 52 di “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 marzo 2022, n. 24, recante disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza”.

In particolare la suddetta legge prevede che:

  • fino al 30 giugno 2022 per i soggetti affetti dalle patologie croniche con scarso compenso clinico e con particolare connotazione di gravità, in presenza delle quali ricorre la condizione di fragilità, laddove la prestazione lavorativa non possa essere resa in modalità agile, il periodo di assenza dal servizio è equiparato al ricovero ospedaliero;
  • fino al 30 giugno 2022 i lavoratori fragili svolgono di norma la prestazione lavorativa in smart working, anche attraverso l’adibizione a diversa mansione ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento, come definite dai contratti collettivi vigenti, o attraverso lo svolgimento di specifiche attività di formazione professionale anche da remoto;
  • fino al 31 luglio 2022 trovano applicazione le disposizioni in tema di sorveglianza sanitaria dei lavoratori maggiormente esposti al rischio di contagio;
  • fino al 31 luglio 2022 i genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio minore di 14 anni, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore, hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali e a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione. Il medesimo diritto allo svolgimento delle prestazioni di lavoro in smart working è riconosciuto, sulla base delle valutazioni dei medici competenti, anche ai lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio, in ragione dell’età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o, comunque, da comorbilità che possono caratterizzare una situazione di maggiore rischiosità accertata dal medico competente, nell’ambito della sorveglianza sanitaria, a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione lavorativa;
  • fino al 31 agosto 2022 è prorogato il termine per l’utilizzo della procedura semplificata di comunicazione dello smart working nel settore privato: le comunicazioni di smart working nel settore privato possono essere eseguite mediante la procedura semplificata già in uso (per la quale non è necessario allegare alcun accordo con il lavoratore), utilizzando esclusivamente la modulistica (Template per comunicare l’elenco dei lavoratori coinvolti) e l’applicativo informatico resi disponibili dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Non sono ammesse altre modalità per l’invio della comunicazione con la procedura semplificata.

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