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6. Il contratto di distribuzione in Spagna

In Spagna il contratto di distribuzione non è disciplinato da una specifica legge, ma, secondo la giurisprudenza spagnola, in presenza di determinati requisiti tale contratto deve essere equiparato al contratto di agenzia, con la conseguenza che al distributore sono dovute le indennità di fine rapporto quando cessa il contratto di distribuzione.

In particolare, secondo i giudici spagnoli, i requisiti che determinano la suddetta equiparazione ed il conseguente riconoscimento delle indennità di fine rapporto in favore del distributore sono i seguenti:

  • si deve trattare di un contratto di distribuzione esclusiva;
  • la cessazione del contratto di distribuzione non deve essere avvenuta su iniziativa del distributore (o concessionario), ma deve essere avvenuta su iniziativa del produttore (o concedente);
  • il distributore deve essere sufficientemente integrato nell’organizzazione del produttore (di solito indici di tale integrazione sono considerati dalla giurisprudenza spagnola: l’obbligo di rispettare i prezzi indicati dal produttore; l’obbligo di informare costantemente il produttore sull’andamento delle vendite; l’obbligo di dare al produttore l’elenco dei clienti);
  • il distributore deve aver apportato nuovi clienti al produttore oppure il distributore deve aver sensibilmente aumentato gli affari del produttore con i clienti esistenti al momento dell’inizio del rapporto;
  • il produttore deve continuare a trarre sostanziali vantaggi dall’attività del distributore anche dopo la cessazione del contratto;
  • il pagamento delle indennità deve apparire equo.

Inoltre, ai fini della quantificazione delle indennità di fine rapporto dovute al distributore in presenza dei requisiti sopra indicati, va considerato che i giudici spagnoli prevedono due tipologie di indennità, che in teoria possono essere riconosciute cumulativamente. Più precisamente la giurisprudenza spagnola prevede le due seguenti tipologie di indennità:

  • l’indennità per clientela;
  • l’indennità per danni e pregiudizi sofferti dal distributore.

L’indennità per clientela consiste nell’indennità dovuta al distributore per la clientela che lo stesso distributore ha procurato al produttore.

I criteri di calcolo di tale indennità variano a seconda se nel contratto di distribuzione sia o meno prevista espressamente l’applicazione analogica delle norme in materia di contratto di agenzia:

  • se è prevista l’applicazione analogica delle norme in materia di contratto di agenzia, l’indennità per clientela viene quantificata sulla base della media dei compensi del distributore negli ultimi cinque anni o, se il contratto di distribuzione ha avuto una durata inferiore a cinque anni, sulla media dei compensi percepiti dal distributore in tale periodo;
  • se non è prevista l’applicazione analogica delle norme in materia di contratto di agenzia, l’indennità per clientela viene quantificata sulla base del lucro cessante.

L’indennità per danni e pregiudizi sofferti dal distributore consiste, invece, nell’indennità dovuta al distributore per i danni da lui subiti per effetto della cessazione del contratto.

Anche in questo caso i criteri di calcolo dell’indennità in esame variano a seconda se nel contratto di distribuzione sia o meno prevista espressamente l’applicazione analogica delle norme in materia di contratto di agenzia:

  • se è prevista l’applicazione analogica delle norme in materia di contratto di agenzia, l’indennità per danni e pregiudizi sofferti dal distributore viene quantificata sulla base dei costi sostenuti dal distributore medesimo, che non sono stati ammortizzati per effetto della cessazione del rapporto;
  • se non è prevista l’applicazione analogica delle norme in materia di contratto di agenzia, l’indennità per danni e pregiudizi sofferti dal distributore viene quantificata sulla base dei danni emergenti.

Infine, per completezza, si segnala che riguardo ai contratti di distribuzione la giurisprudenza spagnola ha elaborato anche il concetto di “debito preavviso”, in virtù del quale in caso di contratto di distribuzione a tempo indeterminato è dovuto dalle parti un preavviso di un mese per ogni anno di durata del contratto con un massimo di sei mesi di preavviso per i contratti di durata pari o superiore ai sei anni, mentre per i contratti di durata pari o inferiore ad un anno è dovuto un periodo di preavviso di un mese.

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5. Il contratto di distribuzione in Svizzera

In Svizzera il contratto di distribuzione non è disciplinato né dal Codice Svizzero delle Obbligazioni, né da altre leggi di tale Paese.

A tale contratto si applicano analogicamente alcune norme del contratto di agenzia, che, invece, è espressamente disciplinato dall’art. 418 del Codice Svizzero delle Obbligazioni.

Stante l’analogia con il contratto di agenzia, secondo il diritto svizzero è possibile pattuire l’esclusiva in un contratto di distribuzione.

In particolare si ha un contratto di distribuzione in esclusiva se al distributore viene attribuito in esclusiva un determinato territorio oppure un determinato canale di vendita.

Sempre in analogia al contratto di agenzia, a seguito della decisione del 22 maggio 2008 del Tribunale Federale Svizzero, i giudici svizzeri hanno dichiarato applicabile l’indennità di fine rapporto prevista in favore degli agenti di commercio dall’art. 418u del Codice Svizzero delle Obbligazioni anche in favore del distributore esclusivo.

Tuttavia, al fine del riconoscimento in favore del distributore esclusivo dell’indennità di fine rapporto, secondo la suddetta decisione del Tribunale Federale Svizzero, devono sussistere tutte le seguenti condizioni:

  • il distributore deve essere fortemente integrato nell’organizzazione del produttore con un’indipendenza economica limitata (indici di tale integrazione sono la previsione nel contratto di distribuzione dei seguenti obblighi: obbligo di rispettare i prezzi indicati dal produttore; obbligo di effettuare ricerche di mercato; obbligo di informare costantemente il produttore dell’andamento delle vendite; obbligo di dare al produttore l’elenco dei clienti);
  • il distributore deve aver considerevolmente aumentato il numero di clienti del produttore (oppure il distributore deve aver sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti);
  • il produttore deve continuare a trarre notevole profitto dall’attività del distributore anche dopo la cessazione del contratto;
  • il pagamento dell’indennità di fine rapporto deve apparire equo.

L’indennità di fine rapporto spettante, se del caso, al distributore esclusivo non può superare il guadagno netto del distributore, da calcolarsi in base alla media degli ultimi cinque anni oppure in base alla durata contrattuale effettiva se tale durata è inferiore ai cinque anni.

Inoltre, per quanto riguarda le norme a tutela della concorrenza, si applicano le norme europee in materia di concorrenza o la Legge Federale Svizzera sui cartelli, a seconda degli stati coinvolti.

Di conseguenza, ad un contratto di distribuzione a cui è applicabile il diritto svizzero ma la cui esecuzione avviene in un paese dell’Unione Europea si applica la normativa europea in materia anticoncorrenziale ed in particolare si applicano gli accordi verticali in materia di distribuzione.

Viceversa, ad un contratto di distribuzione a cui è applicabile il diritto svizzero e la cui esecuzione avviene in Svizzera si applica la Legge Federale Svizzera sui cartelli.

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4. Può sussistere una relazione contrattuale tacita

Secondo la Corte di giustizia dell’Unione europea può sussistere una relazione contrattuale tacita nei rapporti internazionali di lunga durata tra produttore e rivenditore/distributore

Con la sentenza 14/7/2016, C-196/15, la Corte di giustizia dell’Unione europea si è pronunciata sui rapporti commerciali internazionali di lunga durata, in cui un produttore di uno Stato membro dell’Unione europea vende in via continuativa i suoi prodotti ad un rivenditore/distributore di un altro Stato membro, che li rivende nel proprio paese senza però aver stipulato con il produttore alcun contratto scritto disciplinante tale rapporto.

Per meglio comprendere l’importanza della sentenza in commento è utile ricostruire brevemente la vicenda da cui ha tratto origine tale sentenza.

Un’impresa francese (Ambrosi Emmi France SA) distribuiva prodotti alimentari in Francia da circa 25 anni in qualità di rivenditore per un’impresa italiana (Granarolo S.p.A.).

La lunga relazione commerciale non si fondava né su un contratto quadro né su un patto di esclusiva.

Con raccomandata del 10/12/2012 l’impresa italiana comunicava all’impresa francese l’interruzione della relazione commerciale con decorrenza dall’1/1/2013, informando altresì l’impresa francese che da tale data i suoi prodotti sarebbero stati distribuiti in Francia e in Belgio da un’altra impresa francese.

Successivamente l’impresa francese conveniva l’impresa italiana dinanzi al Tribunale commerciale di Marsiglia, sostenendo che la suddetta raccomandata 10/12/2012 costituisse una brusca interruzione di relazioni commerciali stabili, senza l’osservanza di un termine minimo di preavviso, che tenesse conto della durata della loro relazione commerciale.

Pertanto l’impresa francese chiedeva che l’impresa italiana fosse condannata al risarcimento dei danni causati dall’improvvisa interruzione della relazione commerciale.

L’impresa italiana si costituiva in giudizio, contestando la competenza del giudice francese nel procedimento in questione e, quindi, il Tribunale commerciale di Marsiglia rimetteva il giudizio alla Corte d’Appello di Parigi.

La Corte d’Appello di Parigi, chiamata a pronunciarsi sulla competenza o meno del giudice francese, sospendeva il procedimento e sottoponeva alla Corte di giustizia dell’Unione europea due questioni pregiudiziali relative all’articolo 5 del regolamento CE n. 44/2001 del 22/12/2000, riguardante la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (di seguito “regolamento Bruxelles I”).

La Corte di giustizia dell’Unione europea ha affermato che:

  • l’articolo 5, punto 3, del regolamento Bruxelles I dev’essere interpretato nel senso che un’azione di risarcimento fondata su una brusca interruzione di relazioni commerciali stabilite da tempo non rientra nella materia degli illeciti civili dolosi o colposi ai sensi di tale regolamento qualora tra le parti esistesse una relazione contrattuale tacita, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. La dimostrazione volta a provare la sussistenza di una tale relazione contrattuale tacita deve basarsi su un insieme di elementi concordanti, tra i quali figurano, in particolare, l’esistenza di relazioni commerciali stabilite da tempo, la buona fede tra le parti, la regolarità delle transazioni e la loro evoluzione nel tempo espressa in quantità e in valore, gli eventuali accordi sui prezzi fatturati e/o sugli sconti accordati, nonché la corrispondenza intercorsa;
  • l’articolo 5, punto 1, lettera b), del regolamento di Bruxelles I dev’essere interpretato nel senso che relazioni commerciali stabilite da tempo devono essere qualificate come contratti di “compravendita di beni” se l’obbligazione caratteristica del contratto in esame consiste nella consegna di un bene, oppure come contratto di “prestazione di servizi” se tale obbligazione consiste nella fornitura di servizi, circostanze che spetta al giudice del rinvio verificare.

In buona sostanza, con la sentenza in esame la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che una serie di contratti di vendita susseguitisi nel tempo può dar luogo a un tacito “contratto quadro”, qualora sussistano i seguenti elementi:

  • l’esistenza di relazioni commerciali stabilite da tempo;
  • la buona fede tra le parti;
  • la regolarità delle transazioni e la loro evoluzione nel tempo espressa in quantità e in valore;
  • gli eventuali accordi sui prezzi fatturati e/o sugli sconti accordati;
  • la corrispondenza intercorsa.

Il principio di diritto enunciato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza in commento potrebbe risolvere alcune importanti questioni nei rapporti commerciali internazionali di lunga durata, in cui un produttore di uno Stato membro dell’Unione europea vende in via continuativa i suoi prodotti ad un rivenditore/distributore di un altro Stato membro, che li rivende nel proprio paese senza aver stipulato con il produttore alcun contratto scritto disciplinante tale rapporto.

Pertanto, in situazioni come quelle sopra descritte, sarebbe opportuno valutare se formalizzare rapporti commerciali internazionali di lunga durata con uno specifico contratto scritto, in modo da provare a contenere il rischio che si verifichino contenziosi al momento della cessazione di tali rapporti.

In particolare sarebbe opportuno valutare la possibilità di disciplinare tra le parti, prima della cessazione del rapporto, alcuni degli aspetti che determinano maggiori criticità quando si interrompe un rapporto commerciale internazionale di lunga durata, come ad esempio la legge applicabile, il foro competente, il diritto ad un preavviso, il diritto all’eventuale indennità di clientela, le giacenze di magazzino.

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3. I contratti con gli agenti e con i distributori del Regno Unito dopo la Brexit

Il 23 giugno 2016 si è svolto il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, meglio noto come referendum sulla “Brexit”, che si è concluso con un voto favorevole all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

In pratica per gli Stati dell’Unione Europea il Regno Unito diventerà un partner “extracomunitario”, il che implicherà, tra l’altro, anche la rinegoziazione dei vari contratti di agenzia e di distribuzione che le imprese italiane hanno, rispettivamente, con gli agenti e con i distributori del Regno Unito.

Per l’uscita formale del Regno Unito dall’Unione Europea ci vorranno due anni, ma non si conoscono ancora le modalità con cui il Regno Unito attuerà la sua uscita e, quindi, al momento non è possibile esprimersi con certezza su quali saranno gli effetti della Brexit sui contratti in essere con gli agenti e con i distributori del Regno Unito.

Tuttavia, in questa prima fase, è opportuno che le imprese italiane tengano in considerazione le seguenti indicazioni di carattere generale.

  1. A) È importante verificare la giurisdizione applicabile ai contratti in essere con gli agenti e con i distributori del Regno Unito, in quanto:
  • se i contratti attualmente in essere con gli agenti del Regno Unito non prevedono nulla relativamente alla giurisdizione, allora, secondo le norme internazionali, il giudice competente sarà quello del Regno Unito, qualora l’agente svolga la sua prestazione in tale Stato;
  • se i contratti attualmente in essere con i distributori del Regno Unito non prevedono nulla relativamente alla giurisdizione, allora, secondo le norme internazionali, il giudice competente sarà quello del Regno Unito, qualora la distribuzione avvenga in tale Stato.
  1. B) È essenziale verificare la legge applicabile ai contratti in essere con gli agenti e con i distributori del Regno Unito, in quanto:
  • se i contratti attualmente in essere con gli agenti del Regno Unito non prevedono nulla relativamente alla legge applicabile, allora, secondo le norme internazionali, la legge applicabile sarà quella del Regno Unito, qualora l’agente abbia la sua residenza abituale in tale Stato;
  • se i contratti attualmente in essere con i distributori del Regno Unito non prevedono nulla relativamente alla legge applicabile, allora, secondo le norme internazionali, la legge applicabile sarà quella del Regno Unito, dovendosi applicare la legge del paese di residenza del distributore.
  1. C) È fondamentale tenere presente che la Direttiva CEE 653 del 18 dicembre 1986 riguardante gli agenti di commercio è applicabile solo se l’agente svolge la sua attività in un Paese UE, con la conseguenza che, a seguito della Brexit, tale direttiva in teoria non sarà più applicabile agli agenti operanti nel Regno Unito.
  2. D) È importante considerare che nel Regno Unito il diritto dell’agente all’indennità di fine rapporto è disciplinato dal Commercial Agent Regulations n. 3053/1993, che è la legge con cui è stata data attuazione in tale paese alla Direttiva CEE 653 del 18 dicembre 1986. A seguito della Brexit, tale legge continuerà ad essere valida, finché il Regno Unito non deciderà se modificarla o meno.
  3. E) È essenziale tener conto che, ai fini della quantificazione dell’indennità di fine rapporto dovuta all’agente alla cessazione del rapporto, il Commercial Agent Regulations n. 3053/1993 rimette alle parti la possibilità di scegliere tra un’indennità di clientela, limitata ad un massimo di un anno di provvigioni sulla media degli ultimi cinque, dovuta se e nella misura in cui l’agente abbia sviluppato una clientela da cui il preponente possa trarre vantaggio (c.d. modello tedesco) oppure una riparazione del pregiudizio, senza un limite massimo, che viene normalmente calcolata intorno ai due anni di provvigioni (c.d. modello francese). In mancanza di scelta delle parti, secondo il Commercial Agent Regulations n. 3053/1993, si applica il c.d. modello francese.
  4. F) È fondamentale considerare che nel Regno Unito, così come in Italia, il contratto di distribuzione non è regolato dalla legge. In caso di cessazione di un contratto di distribuzione nel Regno Unito, al pari dell’Italia, non è previsto in favore del distributore il riconoscimento di un’indennità di fine rapporto.
  5. G) È importante tener presente che se ai contratti attualmente in essere con i distributori del Regno Unito si applica la legge italiana, allora, secondo la giurisprudenza italiana, il distributore che ha acquistato merce con segni distintivi del concedente ha diritto alla commercializzazione del prodotto anche successivamente alla data di cessazione del rapporto, qualora il contratto di distribuzione non regolamenti le modalità di smaltimento delle giacenze di magazzino rimaste invendute a tale data e, in particolare, non preveda un obbligo di riacquisto dei beni da parte del concedente, né la facoltà di smaltirli da parte del distributore.

In conclusione, negoziare, redigere e concludere contratti con agenti e distributori del Regno Unito dopo la Brexit richiederà maggiori attenzioni e comporterà problematiche più complesse rispetto a quelle relative ai contratti con agenti e distributori di paesi dell’Unione Europea, per cui sarà necessario affidarsi ad un esperto di contrattualistica internazionale, che valuti attentamente le circostanze specifiche del singolo contratto.

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2. La scelta del tipo di intermediario per entrare in un nuovo mercato estero

La scelta del tipo di intermediario per entrare in un nuovo mercato estero

Quando un’impresa decide di entrare in un nuovo mercato estero deve innanzitutto decidere se avvalersi di intermediari in senso stretto oppure di intermediari-rivenditori.

Gli intermediari in senso stretto (e cioè agenti di commercio, procacciatori d’affari, ecc.) sono soggetti che promuovono la conclusione di contratti in cambio di una provvigione.

Gli intermediari-rivenditori (e cioè distributori, importatori esclusivi, ecc.) svolgono compiti analoghi sotto il profilo commerciale a quelli degli intermediari in senso stretto, ma operano come acquirenti-rivenditori, remunerati attraverso un margine (differenza tra prezzo di acquisto e rivendita).

Per l’impresa esportatrice le due figure sopra indicate rappresentano, rispetto all’apertura di una propria filiale all’estero, una soluzione intermedia assai interessante per i seguenti motivi:

  • tali figure comportano per l’impresa esportatrice costi limitati, per di più rapportati alle vendite effettive (vuoi a titolo di provvigione per gli intermediari in senso stretto, vuoi come margine lasciato all’intermediario-rivenditore);
  • tali figure possono consentire all’impresa esportatrice di realizzare, attraverso una struttura dedicata una propria politica di commercializzazione, prevedendo ad esempio che gli intermediari in senso stretto o gli intermediari-rivenditori si impegnino a non distribuire prodotti in concorrenza.

Ad ogni modo, esistono delle differenze anche operative tra le due figure: l’intermediario in senso stretto consente all’esportatore un più efficace controllo sulla clientela (alla quale sarà l’esportatore a vendere direttamente), mentre gli intermediari-rivenditori tendono ad escludere l’impresa esportatrice da ogni rapporto con gli acquirenti finali.

Al tempo stesso però, l’intermediario–rivenditore organizza tutta la fase della rivendita, sollevando l’impresa esportatrice ed i clienti finali da una serie di incombenze (sdoganamento, spedizione al destinatario, magazzinaggio), oltre che rivelandosi di solito più adatto allo svolgimento di servizi accessori, che richiedono la predisposizione di apposite strutture. Ciò spiega il successo della figura dell’intermediario–rivenditore nella vendita di prodotti per i quali sono richiesti anche servizi accessori.

Inoltre, per quanto riguarda la suddivisione dei rischi commerciali, nella distribuzione attraverso intermediari in senso stretto il rischio di insolvenza del cliente finale rimane interamente a carico dell’impresa esportatrice.

Nella distribuzione attraverso intermediari-rivenditori, invece, gli stessi assumono per intero sia il rischio della mancata rivendita dei prodotti acquistati, sia quello del mancato pagamento da parte dei clienti.

Tuttavia nella prassi tale differenza è molto attenuata: nei frequentissimi casi, in cui l’intermediario-rivenditore paga la merce posticipatamente con il ricavato delle vendite da lui effettuate, l’insolvenza dei clienti finali si ripercuoterà di fatto sull’impresa esportatrice.

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1. Il contratto internazionale di distribuzione commerciale

Sempre più spesso si parla di internazionalizzazione delle imprese italiane, ma al momento di organizzare la propria rete commerciale all’estero l’imprenditore si trova di fronte a diverse opzioni, ognuna delle quali può incidere in maniera significativa sul buon esito o meno della sua iniziativa imprenditoriale.

Uno dei contratti più utilizzati per la creazione di una rete commerciale all’estero è – insieme al contratto internazionale di agenzia – il contratto internazionale di distribuzione commerciale (detto anche contratto internazionale di concessione di vendita).

Nonostante nella maggior parte dei paesi UE o extra UE il contratto di distribuzione commerciale non sia regolato dalla legge, stanno però emergendo in alcuni Paesi (ad esempio Portogallo, Belgio, Germania, Spagna e Israele) prassi giurisprudenziali che, in presenza di determinati presupposti, prevedono in favore del distributore il riconoscimento di un’indennità in caso di cessazione del contratto.

Il contratto internazionale di distribuzione può essere a tempo determinato oppure a tempo indeterminato.

Con tale contratto l’impresa esportatrice si obbliga a fornire per la durata del contratto stesso i prodotti oggetto della concessione ad un rivenditore/distributore e quest’ultimo, a sua volta, si obbliga ad acquistarli dall’impresa esportatrice ed a rivenderli in un determinato territorio (un paese straniero o più spesso un’area geografica omogenea), agendo in nome proprio, per proprio conto ed a proprio rischio.

Quando si redige un contratto internazionale di distribuzione commerciale è opportuno definire in maniera chiara e dettagliata i seguenti aspetti:

  • il ruolo del distributore;
  • l’imposizione di listini di rivendita, di obbligo di acquisto in esclusiva e in generale tutte quelle obbligazioni che potrebbero configurare una sorta di dipendenza commerciale;
  • le obbligazioni del distributore, che assume nel paese di riferimento il ruolo di venditore del prodotto in concessione;
  • un territorio proporzionato alle effettive capacità imprenditoriali del distributore, che potrà essere designato come unico distributore dei prodotti contrattuali oppure affiancato dall’impresa esportatrice (che così si riserva la possibilità di effettuare vendite dirette) o ancora essere posto in competizione con un numero limitato di concorrenti tutti parte della rete distributiva;
  • il listino prezzi e la modalità di adeguamento dei prezzi medesimi, i termini e le condizioni di fornitura e resa della merce, la suddivisione degli oneri, dei rischi di trasporto e dei costi accessori;
  • i mezzi di pagamento e le garanzie bancarie da presentare all’impresa esportatrice per il pagamento degli stock ordinati dal distributore;
  • gli obblighi e i divieti che graveranno in capo al distributore in caso di importazione di un prodotto caratterizzato da marchio e brevetto;
  • la legge applicabile al contratto;
  • la giurisdizione e la scelta del foro competente in caso di contenzioso o, in alternativa, di arbitrato internazionale.

Di solito le imprese italiane non prestano la dovuta attenzione agli aspetti sopra indicati e preferiscono utilizzare modelli contrattuali standard (se non addirittura sottoscrivere accordi predisposti dal distributore estero), senza effettuare preliminarmente una valutazione delle singole clausole contrattuali con un esperto di contrattualistica, in modo da cercare di prevenire complessi e costosi contenziosi internazionali basati su legislazioni e prassi giurisprudenziali diverse da quella italiana.

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9. La tutela del concept store e la diffusione degli e-shop

La tutela del concept store e la diffusione degli e-shop

La tutela del lay-out di un negozio, ossia dell’arredamento degli interni e in generale del concept caratterizzante un esercizio commerciale (cosiddetto “concept store”), è stato oggetto recentemente di alcune interessanti pronunce giurisprudenziali, che esamineremo in sintesi nel presente articolo.

Nel commercio al dettaglio sono sempre più diffusi punti vendita (spesso monomarca) contraddistinti da un particolare lay-out, e cioè da una elaborazione progettuale dei locali commerciali, detta per l’appunto concept, che veicola uno specifico messaggio commerciale.

In altri termini, il concept store rappresenta quella specifica composizione dei moduli di arredamento, disposti in una determinata maniera in tutti i punti vendita, che crea il fil rouge per il pubblico: fa riconoscere e ricollega i negozi stessi a una medesima impresa.

Il concept store assume particolare rilevanza sia commerciale che giuridica quando “originale” è la combinazione di elementi funzionali (sedie, scaffalature, illuminazione) ed estetici (colore delle pareti e tipologia di pavimenti, tendaggi, abbigliamento del personale).

Posto che non è raro notare come l’allestimento interno di un negozio venga riprodotto illecitamente da parte dei concorrenti, nel caso di un concept store“originale” si pone per le imprese il problema della tutela dalla concorrenza sleale e dalle violazioni del diritto d’autore.

In proposito si segnala che il Tribunale di Milano ha accolto il ricorso di una società contro una concorrente, riconoscendo la tutela del diritto d’autore all’elaborazione progettuale dei suoi negozi monomarca effettuata da uno studio di architettura e registrata come modello italiano.

La società condannata è stata ritenuta colpevole di avere operato una “diretta appropriazione del concept della catena concorrente, con una ripresa integrale degli elementi di arredo”.

Il Tribunale di Milano ha, quindi, inibito l’uso dell’arredo oggetto del contendere, condannando la società resistente anche al pagamento dei danni ed alla modifica di tutti i suoi punti vendita entro 60 giorni.

In particolare la quantificazione del risarcimento del danno liquidato in via equitativa nella somma di Euro 716.250,00 è stata effettuata utilizzando come criterio principale il risparmio che la società resistente ha potuto ottenere grazie allo sfruttamento del progetto di architettura della società ricorrente. Tale importo è stato, poi, aumentato in base al numero dei negozi ai quali la società condannata ha illegittimamente applicato il concept. A ciò è stato aggiunto il rimborso delle spese investigative sostenute dalla società danneggiata, oltre al riconoscimento delle spese legali quantificate nella somma di Euro 26.400,00.

L’efficacia della sentenza in commento è stata poi sospesa dalla Corte d’Appello di Milano, che ha effettuato una valutazione comparativa, all’esito della quale ha ritenuto prevalente il danno che deriverebbe all’appellante dall’esecuzione della sentenza rispetto a quello che deriverebbe all’appellata dalla mancata esecuzione della stessa e ha quindi disposto la sospensione della provvisoria esecutorietà della sentenza del Tribunale di Milano. Ne consegue che la società ricorrente dovrà attendere la conferma in secondo grado per ottenere la piena esecuzione della decisione di primo grado.

Ad ogni modo, tale sentenza del Tribunale di Milano è molto interessante, in quanto riconosce all’arredamento degli interni una protezione ampia e di lunga durata.

Ai progetti di arredamento di interni viene infatti riconosciuta la tutela del diritto autore: a tal fine è necessario il requisito della creatività, la quale, a detta del Tribunale di Milano, non può essere esclusa soltanto perché l’opera consiste in idee semplici o comunque presenti nel patrimonio collettivo, laddove sussista un’interpretazione personale e autonoma, da parte dell’autore, di dati della realtà tali da conferire all’interior design un carattere originale nel suo insieme.

Viene altresì riconosciuta una protezione, residuale e concorrente, avverso qualsivoglia atto di concorrenza sleale parassitaria, consistente nell’imitazione degli arredamenti interni dei negozi: ciò che davvero rileva non è la confondibilità tra i lay-out dei negozi, quanto piuttosto la pluralità di elementi imitativi utilizzati al fine di sfruttare sistematicamente il lavoro, la creatività e gli investimenti altrui, in esplicita violazione dei principi di correttezza professionale.

Si sottolinea inoltre come l’imitazione possa considerarsi illecita soltanto se effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (in caso di concorrenza parassitaria diacronica) o dall’ultima e più significativa di esse (in caso di concorrenza parassitaria sincronica).

Ciò detto, va altresì evidenziato che, nel caso di specie, pur menzionandola, la società ricorrente non abbia azionato la registrazione per modello relativa al “Design di arredi di interni per negozi monomarca”, molto probabilmente perché proprio il Tribunale di Milano in un caso precedente, pur non escludendo in generale che un modello possa tutelare un progetto d’arredamento, aveva ritenuto che il modello azionato dalla stessa società ricorrente non avesse ad oggetto il concept, ma solo “specifici elementi di arredo”.

Sul tema, il Tribunale di Bologna si è peraltro espresso in senso diametralmente opposto rispetto al Tribunale di Milano, ritenendo che il conceptd’arredamento non possa proprio rientrare nella definizione di “disegno o modello”.

In proposito non va peraltro ignorata la possibilità di tutelare il concept come marchio di forma: la Corte di giustizia europea ha già confermato che, in presenza di idonea capacità distintiva, la rappresentazione “dell’allestimento di uno spazio di vendita mediante un insieme continuo di linee, di contorni e di forme può costituire un marchio”.

Nell’ambito del quadro giurisprudenziale qui sopra brevemente delineato, da un punto operativo va infine considerato che lo sviluppo dell’e-commerce ha profondamente modificato il sistema del commercio al dettagliooggi sempre più ad appannaggio degli e-shop di fascia alta, che offrono una copertura planetaria e permettono alle imprese di intercettare i consumatori più giovani (i millennial e la generazione Z).

Appare dunque prevedibile che la brand identity – costruita dalle imprese con una forte integrazione tra off line e on line, in cui lo spazio fisico non scompare ma diventa il volano anche per le vendite via web – richiederà forme di tutela sempre più adeguate rispetto alle condotte scorrette delle imprese concorrenti sia off line che on line.

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8. Recesso dal contratto di distribuzione e violazione del principio di buona fede

Recesso dal contratto di distribuzione e violazione del principio di buona fede

Con la sentenza n. 691 del 5 febbraio 2018 la Corte d’Appello di Roma è tornata a pronunciarsi sul noto “caso Renault” dopo il rinvio della Suprema Corte ad altra sezione della medesima Corte d’Appello di Roma, a seguito della cassazione della precedente sentenza del giudice di secondo grado.

Nel caso di specie alcuni ex concessionari della Renault avevano impugnato il recesso a loro comunicato dalla casa automobilistica, lamentandone l’irragionevolezza e l’illegittimità, pur se i relativi contratti di concessione di vendita attribuissero alla Renault il diritto di sciogliere unilateralmente dal contratto senza alcuna giustificazione. I giudici di merito avevano rigettato le domande degli attori, affermando la piena liceità della condotta della convenuta che, per la preventiva scelta operata allatto della determinazione del contenuto del contratto, appariva legittimata a sottrarsi ad “ogni controllo causale sull’esercizio di tale potere”.

La Corte di Cassazione è stata chiamata a vagliare la legittimità della decisione che aveva ritenuto l’esercizio di un recesso ad nutum non assoggettabile ad una forma di controllo fondata sul principio di buona fede ed è pervenuta a conclusioni molto chiare almeno sul punto della sussistenza di un preciso e ineludibile dovere di valutazione che il giudice non può omettere di osservare.

In particolare, la Corte di Cassazione ha stabilito che la pretesa fatta valere dai concessionari “revocati” va valutata accertando se il recesso comunicato loro dalla Renault sia stato (nonostante l’avvenuta intimazione del preavviso) “inaspettato e sorprendente” e se, quindi, la società concedente con il proprio comportamento abbia generato un “legittimo affidamento” circa la continuazione del rapporto.

In altre parole, si tratta di verificare se il recesso della casa automobilistica concedente abbia o meno integrato una violazione del dovere di buona fede.

Secondo la Corte di Cassazione, tale verifica, da un lato, non è condizionata e circoscritta dalla necessità di riscontrare particolari circostanze qualificanti (ad es. il dolo, inteso come intenzione di nuocere), ma, dall’altro, deve limitarsi ad un controllo di tipo esclusivamente procedurale (il controllo sulle modalità dell’agire), che non può spingersi a sindacare i motivi (o lo “scopo”) per il quale il recesso ad nutum è stato posto in essere.

Chiariti i limiti dell’indagine demandata alla Corte d’Appello di Roma come giudice del rinvio, la sentenza in esame nulla ha accertato in ordine alla legittimità o meno della scelta strategica di Renault di recedere dai contratti con i concessionari, posto che non è possibile – secondo il principio elaborato dalla Corte di Cassazione e sopra esposto – sindacare su di una scelta di mercato, andando ad incidere sull’autonomia negoziale di un soggetto, nel caso di specie la casa automobilistica Renault, in mancanza di prove sulle finalità ulteriori e diverse rispetto a quelle contrattuali idonee a giustificare il recesso ad nutum della casa madre.

In altri termini, la seconda Sezione della Corte d’Appello di Roma non ha ritenuto agevole accedere alla tesi dei concessionari “revocati” (secondo i quali lo scopo ultroneo ed anomalo della società concedente sarebbe stato l’inserimento di ex dirigenti Renault nella rete di vendita al fine di evitare gravosi impegni economici legati allo scioglimento del rapporto di lavoro con questi ultimi), a fronte di una comprovata e già nota scelta di riorganizzazione aziendale da parte dei vertici della stessa Renault.

La Corte d’Appello di Roma ha ritenuto invece che il comportamento di Renault non sia stato improntato ai necessari criteri di correttezza e lealtà sotto il profilo della buona fede oggettiva nell’ambito dell’esecuzione del rapporto contrattuale, in considerazione del breve lasso di tempo intercorso tra:

  • l’imposizione da parte della Renault ai propri concessionari di investimenti e obiettivi minimi, preordinati a realizzare nuovi show room, ad incrementare pubblicità, ad aprire sub-concessionarie, ecc.; e
  • la comunicazione di recesso con preavviso di dodici mesi, che non consentiva ai destinatari di ammortizzare gli impegni economici che gran parte dei concessionari “revocati” aveva sostenuto per incrementi di capitale, per la costruzione di sedi, per l’acquisto di notevoli quantità di materiale di ricambio e per l’assunzione di personale.

L’affidamento su una ragionevole continuità del rapporto, desumibile dalla (allora) recente sottoscrizione di patti aggiuntivi al contratto di concessione, contenenti l’accettazione delle richieste di incremento del fatturato e sforzi programmatici, è risultato così frustrato dalla scelta improvvisa di estinguere ogni rapporto, senza dare ai concessionari la possibilità di rinegoziare la durata del contratto, ovvero di proporre in ipotesi un’indennità di fine rapporto idonea a tamponare gli effetti economici pregiudizievoli, o ancora di accedere ad un preavviso più lungo di quello stabilito nel contratto.

Avendo accertato che il recesso ad nutum della società concedente è stato esercitato con modalità contrarie a buona fede, la Corte di Appello di Roma come giudice del rinvio si è quindi posta il problema di accertare, caso per caso, quale sia stato il danno subito da ciascun concessionario, determinando l’ammontare tenuto anche conto che, almeno quindici dei ventiquattro concessionari revocati, hanno stipulato nuovi contratti di concessione con altre case automobilistiche, utilizzando le strutture commerciali già realizzate.

In proposito la Corte di Appello di Roma ha escluso che ai concessionari debba essere riconosciuta un’indennità di avviamento o di clientela come previsto nel contratto di agenzia, richiamandosi sul punto alla Corte di Cassazione che, nella sentenza con cui ha cassato la sentenza di secondo grado, ha espressamente escluso qualsiasi rapporto di analogia fra il contratto di concessione di vendita e il contratto di agenzia, anche nel caso in cui il contratto di concessione di vendita si estingua per effetto del recesso della società concedente, esercitato con modalità contrarie alla buona fede.

Con la sentenza in esame la Corte di Appello di Roma ha infine esaminato, caso per caso, sulla base di un giudizio di diritto caratterizzato dalla c.d. equità correttiva (o integrativa), le posizioni dei singoli concessionari, ipotizzando che, a causa del comportamento della Renault, tutti i soggetti “revocati” avessero fatto affidamento su una prosecuzione del rapporto per un periodo compreso tra due e cinque anni.

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7. L’obbligo della dicitura distributore autorizzato nei documenti utilizzati con la clientela

L’obbligo della dicitura “distributore autorizzato” nei documenti utilizzati con la clientela

Con la sentenza del 5 aprile 2017 il Tribunale di Milano è tornato a pronunciarsi in materia di contratto di distribuzione commerciale ed in particolare si è pronunciato sull’omissione da parte del distributore della dicitura “distributore autorizzato” nei documenti utilizzati nei rapporti con la clientela.

Per meglio comprendere la sentenza in commento è utile ricostruire brevemente la vicenda da cui ha tratto origine tale sentenza.

Nel caso di specie la società Alfa aveva convenuto in giudizio la società Beta per sentir dichiarare l’inadempimento di quest’ultima alle obbligazioni assunte con il contratto di distribuzione stipulato tra le parti in data 17 marzo 2008 e sentire conseguentemente condannare Beta al pagamento della penale convenuta, pari a € 150.000,00, nonché al pagamento dell’importo di € 43.560,00, dovuto a titolo di royalties, oltre al risarcimento del danno contrattuale ed extracontrattuale derivante dallo sviamento di clientela causato dall’inadempimento di Beta rispetto ad una specifica clausola del suddetto contratto, secondo cui quest’ultima società si impegnava ad inserire in tutti i documenti, fiscali e non, utilizzati per il normale rapporto con la clientela o per le operazioni di marketing, nonché sul proprio sito aziendale, la dicitura “distributore autorizzato”.

Beta, costituendosi, chiedeva il rigetto della domanda di parte attrice e, in via riconvenzionale, chiedeva altresì che il Tribunale dichiarasse che il contratto si fosse risolto per inadempimento di Alfa e condannasse quest’ultima società al risarcimento dei danni subiti dalla stessa Beta.

All’esito dell’istruttoria, consistita nell’assunzione delle prove orali, il Tribunale di Milano:

  • ha condannato Beta a pagare, in favore di Alfa, la somma di € 43.560,00, a titolo di royalties;
  • ha respinto le altre domande di Alfa e la domanda riconvenzionale formulata da Beta;
  • ha condannato Beta a rifondere ad Alfa la metà delle spese di lite, compensando fra le parti la restante metà.

La sentenza del 5 aprile 2017 del Tribunale di Milano è interessante, in quanto – con particolare riferimento all’asserita violazione da parte del distributore Beta dell’obbligo contrattuale di inserire la dicitura “distributore autorizzato” in tutti i documenti, fiscali e non, utilizzati nei rapporti con la clientela o per le operazioni di marketing, nonché sul proprio sito aziendale – il Giudice adito ha ritenuto che non comporta un illecito sviamento della clientela l’episodica e non sistematica condotta posta in essere da un distributore autorizzato, nel caso di specie Beta, che abbia omesso di esplicitare nei contratti di licenza e nei rapporti di clientela la sua qualità di “mero distributore”.

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6. Gli obblighi del distributore secondo la Corte di Cassazione

Gli obblighi del distributore secondo la Corte di Cassazione

Con la sentenza n. 4948 del 27 febbraio 2017 la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del contratto di distribuzione commerciale (detto anche contratto di concessione di vendita), precisando gli obblighi a carico del distributore (detto anche concessionario), che derivano dalla sottoscrizione di tale contratto.

La sentenza in commento è interessante, in quanto, dopo aver ribadito la natura giuridica del contratto di distribuzione commerciale, ha precisato gli obblighi a carico del distributore, che derivano dalla sottoscrizione di tale contratto, ossia l’obbligo di promuovere la rivendita dei prodotti acquistati dal concedente e di promuoverne la vendita e l’obbligo di incrementare la commercializzazione di tali prodotti in base alle direttive impartitegli dal concedente stesso.

Per meglio comprendere l’importanza della sentenza in commento è utile ricostruire brevemente la vicenda da cui ha tratto origine tale sentenza.

Con atto di citazione del 25 giugno 2001 la società italiana Alfa conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Mantova, sezione distaccata di Castiglione delle Stiviere, la società austriaca Beta, chiedendo che venisse accertata la risoluzione del contratto di distribuzione commerciale stipulato tra le parti in data 1 febbraio 1999 per inadempimento da parte del distributore austriaco dell’obbligo di svolgere attività di promozione e di vendita dei prodotti acquistati dalla società italiana, nonché dell’obbligo del raggiungimento dei quantitativi minimi di vendita fissati per ciascun anno, con conseguente condanna risarcitoria della società Beta a corrispondere in favore della società Alfa Euro 218.850,00.

In particolare la società concedente italiana nell’atto di citazione sottolineava che dal mese di febbraio 2000 il distributore austriaco aveva interrotto unilateralmente ogni rapporto commerciale, cessando di acquistare e di vendere i prodotti della società Alfa.

Si costituiva in giudizio la società Beta, che non contestava di aver interrotto l’esecuzione del contratto di distribuzione commerciale, ma deduceva i precedenti inadempimenti della società Alfa quanto alla violazione del patto di esclusiva concesso per l’Austria, chiedendo così di accertare in via riconvenzionale la risoluzione del contratto per inadempimento della società concedente italiana, con conseguente condanna al risarcimento dei danni.

Il Tribunale di Mantova, sezione distaccata di Castiglione delle Stiviere, dichiarava risolto il contratto del 1 febbraio 1999 a far data dal 28 aprile 2000 per inadempimento del distributore austriaco, condannando quest’ultimo a risarcire i danni liquidati in Euro 180.388,37, oltre interessi, mentre rigettava le domande riconvenzionali.

La società austriaca Beta proponeva appello principale, mentre la società italiana Alfa proponeva appello incidentale per ottenere il maggior importo risarcitorio richiesto in primo grado.

La Corte d’Appello di Brescia, con sentenza n. 868/2012 del 2 luglio 2012, in parziale accoglimento del gravame proposto dal distributore austriaco, rigettava la domanda di risoluzione del contratto e conseguente risarcimento proposta dalla società concedente italiana.

In particolare la Corte d’Appello di Brescia evidenziava che la domanda della società Alfa fosse fondata sulla condotta inadempiente della società Beta per il mancato raggiungimento degli obiettivi minimi di vendita per gli anni 1999 e 2000, con correlati danni per lucro cessante e danno emergente (mancato incasso del fatturato e corresponsione delle royalties al titolare del marchio), laddove la clausola n. 35.4 del contratto del 1 febbraio 1999, proprio per l’ipotesi del mancato raggiungimento degli obiettivi minimi di vendita da parte del distributore, non prevedeva alcun risarcimento in favore del concedente, ma solo un diritto per quest’ultimo di porre termine al contratto. Parimenti la Corte d’Appello di Brescia rigettava la domanda di risoluzione proposta dal distributore austriaco basata sulla violazione del patto di esclusiva, alla luce delle prove testimoniali assunte.

Contro la sentenza della Corte d’Appello di Brescia proponeva ricorso in Cassazione la società concedente italiana, evidenziando che la domanda di risoluzione del contratto di distribuzione commerciale da lei proposta fosse stata basata sull’arbitraria interruzione degli acquisti da parte del distributore austriaco e non, come erroneamente inteso dalla corte territoriale bresciana, sul mancato raggiungimento degli obiettivi minimi di vendita, che rappresentava la conseguenza dell’inadempimento posto in essere da tale distributore.

Con la sentenza n. 4948 del 27 febbraio 2017 la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dalla società Alfa, rilevando in linea generale che:

  • secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione la concessione di vendita è un contratto atipico, non inquadrabile tra quelli di scambio con prestazioni periodiche, avente natura di contratto normativo, dal quale deriva l’obbligo per il concessionario sia di promuovere la formazione di singoli contratti di compravendita, sia di concludere contratti di puro trasferimento dei prodotti, che gli vengono forniti, mediante la stipulazione a condizioni predeterminate nell’accordo iniziale;
  • nel contratto di concessione di vendita il concessionario rivenditore assume l’obbligo di promuovere la rivendita dei prodotti che vengono acquisiti mediante la stipulazione (alle condizioni predeterminate dal contratto normativo) di singoli contratti d’acquisto, assumendo altresì l’impegno di incrementare la commercializzazione di tali prodotti in base alle direttive impartitegli dal concedente.

Nel caso di specie, rispetto all’obbligo di svolgere attività di promozione e di vendita dei prodotti acquistati dalla società italiana Alfa, la società austriaca Beta si era resa inadempiente dal febbraio 2000, avendo interrotto improvvisamente gli acquisti, da cui era derivato inevitabilmente il mancato raggiungimento degli obiettivi minimi di vendita.

 

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