Autore: FTA Pagina 14 di 26

24. Decorrenza del termine per le giustificazioni del lavoratore nel procedimento disciplinare

Con sentenza del 22 febbraio 2019 la Corte d’Appello di Milano si è pronunciata sul tema della decorrenza del termine per le giustificazioni del lavoratore subordinato nel procedimento disciplinare.

In particolare la Corte territoriale milanese, richiamando la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, ha affermato che la lettera di contestazione disciplinare si deve ritenere conosciuta dal dipendente nel momento in cui viene lasciato l’avviso di giacenza presso l’abitazione dello stesso dipendente, essendo a tal proposito irrilevante il periodo di 30 giorni necessario ai fini del compimento di detta giacenza.

Sulla base di tale principio, la Corte d’Appello di Milano ha stabilito la tardività dell’invio della lettera di licenziamento da parte del datore di lavoro, in quanto avvenuto oltre il termine finale fissato dal CCNL di settore, riformando in sede di reclamo la sentenza del Tribunale di Milano, che invece aveva ritenuto il licenziamento come irrogato nei termini, sul presupposto che la lettera di contestazione, inviata tramite raccomandata e non consegnata al dipendente, è da ritenersi conosciuta da parte del lavoratore soltanto una volta verificatasi la compiuta giacenza.

La situazione sopra indicata, e in particolare l’invio della lettera di licenziamento oltre il termine stabilito dal CCNL di settore, è stata valutata dalla Corte d’Appello di Milano come una violazione formale e non sostanziale da parte del datore di lavoro, con la conseguente applicazione della c.d. “tutela indennitaria debole”, che prevede un’indennità risarcitoria da 6 a 12 mensilità. 

 

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10. Recesso dal contratto di distribuzione a tempo determinato

Con la sentenza n. 31186 del 28 novembre 2019 la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla possibilità di inserire la facoltà di recesso in un contratto di distribuzione a tempo determinato.

In particolare nella suddetta sentenza la Suprema Corte ha stabilito che esula dallo schema del contratto di agenzia il contratto, con il quale un soggetto si obblighi ad acquistare in via esclusiva dalla controparte una determinata merce, che poi rivende in nome e per conto proprio, anche se all’obbligo di esclusiva si aggiunga, a carico dello stesso soggetto, quello di incrementare e promuovere la vendita di detta merce in base alle direttive impartitegli dal fornitore. Di conseguenza, non si applica l’art. 1750, comma 2, codice civile, che esclude il recesso con preavviso nel caso di agenzia a tempo determinato.

In buona sostanza, la sentenza in commento ha affermato che, diversamente dal contratto di agenzia a tempo determinato, nel contratto di distribuzione a tempo determinato è lecito l’inserimento le parti della facoltà di recesso con preavviso a favore di entrambe.

 

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9. Nuova direttiva UE sull’e-commerce

Dal 7 gennaio 2020 è entrata in vigore la direttiva UE 2019/2161, che contiene nuove norme sull’e-commerce.

Entro il 28 novembre 2021 gli Stati membri dovranno adottare le disposizioni necessarie per attuare tale direttiva. Dal 28 maggio 2022 gli Stati membri dovranno poi applicare le disposizioni attuative della direttiva in esame.

La direttiva 2019/2161 si inserisce nell’ambito del c.d. “New Deal per i consumatori”, con cui l’Unione Europea mira a rafforzare le tutele dei consumatori nell’e-commerce e a modernizzare le preesistenti norme di protezione dei consumatori europei in linea con i recenti sviluppi digitali.

In tale prospettiva con la direttiva 2019/2161 sono state modificate la direttiva relativa alle pratiche commerciali sleali (2005/29/CE), la direttiva sui diritti dei consumatori (2011/83/UE), la direttiva sulle clausole abusive nei contratti (93/13/CEE) e la direttiva sull’indicazione dei prezzi (98/6/CE).  

In estrema sintesi le principali novità sull’e-commerce contenute nella direttiva 2019/2161 sono le seguenti:

  • maggiore trasparenza nelle transazioni online, specie per quanto riguarda l’utilizzo di recensioni online, la fissazione personalizzata dei prezzi sulla base di algoritmi o una migliore classificazione dei prodotti dovuta ai “posizionamenti a pagamento”;
  • obbligo per i “mercati online” di comunicare ai consumatori se, in una transazione online, il professionista responsabile è il venditore e/o lo stesso “mercato online”;
  • tutela dei consumatori rispetto ai servizi digitali “gratuiti”, ossia quelli in cui i consumatori non pagano un importo in denaro, ma forniscono dati personali, come l’archiviazione su cloud, i social media e gli indirizzi di posta elettronica;
  • informazioni chiare ai consumatori in caso di riduzione dei prezzi;
  • diritto a rimedi individuali per i consumatori lesi da pratiche commerciali sleali, come un marketing aggressivo;
  • maggiore armonizzazione e semplificazione di alcuni dei criteri utilizzati per stabilire il livello delle sanzioni per le violazioni del diritto UE in materia di consumatori.

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20. Il contratto di agenzia in Olanda

In Olanda il contratto di agenzia è disciplinato dagli articoli 428-445 libro 7 del codice civile olandese.

L’agente di commercio può essere sia una persona fisica, sia una persona giuridica.

In Olanda l’agente di commercio viene considerato come un imprenditore e come tale è tenuto ad iscriversi nel registro di commercio e presso l’ufficio erariale.

La legge olandese non prevede alcun requisito di forma per il contratto di agenzia, ma, a pena di nullità, è comunque necessaria la forma scritta per determinate clausole contrattuali, come ad esempio la clausola sullo “star del credere” o il divieto di concorrenza post-contrattuale.

In Olanda, a differenza dell’Italia, il c.d. “star del credere” è valido, con la conseguenza che, secondo la legge olandese, in caso di insolvenza dei clienti, l’agente risponde senza limiti, purché lo “star del credere” sia stato pattuito per iscritto e a fronte del riconoscimento di una provvigione aggiuntiva.

Il contratto di agenzia può essere a tempo determinato o indeterminato. In Olanda la legge nulla dispone in merito al periodo di prova.

Dal contratto di agenzia a tempo indeterminato ciascuna parte può recedere con concessione del periodo di preavviso. Il termine di preavviso previsto dalla legge olandese varia tra i quattro e i sei mesi. In caso di violazione di tali termini di preavviso, la parte recedente è tenuta a risarcire l’altra parte.

A prescindere dal fatto che il contratto sia a tempo determinato o a tempo indeterminato, secondo la legge olandese, ogni contraente può recedere senza necessità del termine di preavviso qualora vi sia una c.d. giusta causa.

Sebbene la legge olandese sia generica nel definire il concetto della giusta causa, la giurisprudenza olandese ritiene che:

  • la preponente è autorizzata a recedere per giusta nelle seguenti ipotesi: corruzione dell’agente, insolvenza dell’agente, violazione dell’obbligo di esclusiva da parte dell’agente;
  • l’agente è autorizzato a recedere per giusta nelle seguenti ipotesi: violazione dell’obbligo di esclusiva da parte della preponente, insolvenza della preponente.

In caso di risoluzione del contratto (a tempo determinato o indeterminato), se l’agente ha acquisito nuovi clienti per la preponente o ha sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti preesistenti, l’agente medesimo ha diritto ad un indennizzo, se la preponente ottiene dalla precedente attività dell’agente sensibili vantaggi come prima e se il pagamento dell’indennizzo corrisponde ad equità.

L’indennizzo non deve superare l’importo medio annuale delle provvigioni ottenute dall’agente negli ultimi cinque anni; se, invece, l’intera durata del rapporto contrattuale è inferiore, l’indennizzo viene calcolato sul relativo periodo.

Al contrario, l’agente non ha diritto ad alcun indennizzo se:

  • il contratto di agenzia è stato risolto dalla preponente a causa di una colpa grave dell’agente medesimo;
  • il recesso è stato esercitato dall’agente, a meno che il recesso non sia dovuto a circostanze imputabili alla preponente o sia conseguenza di malattia, salute cagionevole o vecchiaia dell’agente;
  • l’agente, con il consenso del preponente, ha trasferito ad un terzo i propri diritti e doveri.

Nel contratto di agenzia può essere inserito un patto di non concorrenza post-contrattuale, ma la legge olandese non prevede il riconoscimento in favore dell’agente di alcuna indennità per tale patto.

Per essere lecito il patto di non concorrenza post-contrattuale deve rispettare i seguenti requisiti:

  • forma scritta;
  • limitazione dell’ambito di applicazione del patto alla medesima zona, clientela e prodotti già indicati nel contratto di agenzia;
  • limitazione della durata del patto a due anni successivi all’estinzione del contratto di agenzia.

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45. Pensione dell’agente e patto di non concorrenza

Con la sentenza n. 1109 del 9 luglio 2019 il Tribunale di Velletri si è pronunciato sul diritto dell’agente che va in pensione ad ottenere l’indennità per il patto di non concorrenza post-contrattuale di cui all’art. 1751 bis del codice civile.
In particolare, con la suddetta pronuncia il Tribunale di Velletri ha affermato che, qualora il rapporto di agenzia sia cessato per ragioni di pensionamento, salute ed età dell’agente, quest’ultimo non ha diritto ad ottenere anche l’indennità per il patto di non concorrenza post-contrattuale ex art. 1751 bis del codice civile, essendo pacifico che – a seguito del recesso per ragioni di pensionamento – l’agente non avrebbe più svolto l’attività.
La sentenza in commento è interessante, in quanto prende posizione su tema su cui sussiste sia una lacuna normativa sia una lacuna della contrattazione collettiva, posto che né l’art. 1751 bis del codice civile, né gli Accordi Economici Collettivi prevedono espressamente il diritto dell’agente ad ottenere l’indennità per il patto di non concorrenza post-contrattuale nel caso in cui la cessazione del rapporto di agenzia avvenga per circostanze attribuibili all’agente medesimo, quali età, infermità o malattia, per le quali non può più essergli ragionevolmente richiesta la prosecuzione dell’attività.

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44. Violazione dell’obbligo di non concorrenza

Con la sentenza n. 30065 del 19 novembre 2019 la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla nozione di concorrenza nell’ambito del contratto di agenzia.

In particolare, nella suddetta sentenza la Suprema Corte ha affermato che, agli effetti del divieto fatto all’agente dall’art. 1743 cod. civ. di trattare per lo stesso ramo gli affari di più imprese concorrenti tra loro, la nozione di concorrenza non va necessariamente individuata in relazione alla produzione o commercializzazione di identici prodotti da parte di più imprese, essendo a tal fine sufficiente che tali imprese si rivolgano ad una clientela anche solo potenzialmente comune, cosicché l’una possa ricevere danno dall’ingresso e dall’espansione dell’altra sul mercato, cui entrambe si rivolgano o prevedibilmente si rivolgeranno.

In buona sostanza, dalla sentenza in esame si deduce che si verifica una violazione dell’obbligo di non concorrenza da parte dell’agente, quando lo stesso promuove in parallelo affari per due o più imprese che si rivolgono ad una clientela anche potenzialmente comune, a prescindere dalla diversa tipologia di beni di cui l’agente promuove la vendita e cioè dalle caratteristiche di tali prodotti.

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43. Recesso per giusta causa basato sulla violazione dell’obbligo di lealtà e buona fede

Con la sentenza n. 27508 del 28 ottobre 2019 la Corte di Cassazione si è pronunciata sul tema del recesso per giusta causa da parte dell’agente in caso di violazione dell’obbligo di agire con lealtà e buona fede da parte della preponente.

In particolare nella suddetta sentenza la Suprema Corte ha affermato che:

  • l’istituto del recesso per giusta causa, previsto in relazione al contratto di lavoro subordinato, è applicabile anche al contratto di agenzia, dovendosi però tener conto, per la valutazione della gravità della condotta, che in quest’ultimo ambito il rapporto di fiducia (in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell’attività per luoghi, tempi, modalità e mezzi, in funzione del conseguimento delle finalità aziendali) assume una maggiore intensità rispetto al rapporto di lavoro subordinato;
  • di conseguenza, ai fini della legittimità del recesso per giusta causa in un rapporto di agenzia, è sufficiente un fatto di minore consistenza, secondo una valutazione rimessa al giudice di merito insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente e correttamente motivata;
  • ai sensi dell’art. 1749 cod. civ. la preponente è obbligata ad agire con correttezza e buona fede nei confronti dell’agente, potendo la violazione di tale obbligo configurare, in base alla gravità delle circostanze, una giusta causa di recesso del rapporto, con il conseguente diritto dell’agente che recede per tale motivo ad ottenere l’indennità di fine rapporto prevista dall’art. 1751 cod. civ.;
  • nel caso in cui il Giudice accerta l’insussistenza della giusta causa, il recesso dell’agente si converte in recesso senza preavviso, che determina la riespansione del diritto della preponente ad ottenere l’indennità di mancato preavviso, oltre all’eventuale risarcimento del danno ulteriore.

La sentenza in commento trae origine da un recesso per giusta causa effettuato da due promotori finanziari per asserita violazione dell’obbligo di lealtà e buona fede ex art. 1749 cod. civ. da parte di una banca per presunto abuso ispettivo nei loro confronti, a causa dell’accesso negli uffici dei due promotori degli ispettori inviati dalla stessa banca e dalla loro successiva relazione.

Pertanto, dalla sentenza in esame si deduce che, sebbene sia astrattamente legittimo per un agente porre a fondamento del suo recesso per giusta causa la violazione da parte della preponente dell’obbligo di lealtà e buona fede di cui all’art. 1749 cod. civ., spetta al giudice di merito accertare caso per caso se tale violazione integri o meno gli estremi di una giusta causa di recesso, tenendo presente le specifiche circostanze del caso concreto.

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23. Conseguenze del licenziamento verbale del dipendente

Conseguenze del licenziamento verbale del dipendente

Il licenziamento verbale (detto anche “orale”) si verifica quando il lavoratore viene allontanato dal luogo di lavoro senza alcun atto formale da parte del datore di lavoro, che sia una lettera di licenziamento o altro.

Le conseguenze derivanti dal licenziamento intimato in forma orale sono attualmente disciplinate, per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, dall’art. 18 Statuto lavoratori e, per i lavoratori assunti dopo tale data, dall’art. 2 del decreto legislativo n. 23 del 2015, uno dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act.

L’art. 2 del D. Lgs. n. 23 del 2015 prevede espressamente che il licenziamento intimato in forma orale è inefficace.

Nel caso venga accertata la nullità e inefficacia del licenziamento, con la relativa pronuncia il giudice condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore, stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.

Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

Fermo restando il diritto al suddetto risarcimento, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell’indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.

L’art. 2 del D. lgs n. 23 del 2015 è di contenuto sostanzialmente identico all’art. 18 dello Statuto lavoratori.

Sia l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori sia il citato art. 2 prevedono che il lavoratore licenziato oralmente ha diritto a:

  • essere reintegrato nel posto di lavoro;
  • ottenere il risarcimento del danno per il periodo successivo al licenziamento e fino all’effettiva reintegra, dedotto quanto percepito da altra occupazione (il risarcimento non può comunque essere inferiore nel minimo di cinque mensilità di retribuzione);
  • ottenere il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per tutto il periodo dal giorno del licenziamento a quello della reintegra;
  • scegliere fra la reintegra e l’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto.

La novità introdotta dalla riforma del 2015 è rappresentata dalla base di calcolo dell’indennità risarcitoria: mentre l’art. 18 fa riferimento alla retribuzione globale, l’art. 2 del decreto legislativo 23 del 2015 prevede che l’indennità debba essere “commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto”.

In buona sostanza, il licenziamento comunicato solo oralmente non produce alcun effetto e, in particolare, non interrompe il rapporto di lavoro tra le parti, sicché il datore di lavoro deve tener presente che in tal caso si troverebbe a pagare la retribuzione al lavoratore sino a quando non sopravvenga un’efficace causa di risoluzione o estinzione del rapporto di lavoro o l’effettiva riassunzione.

In questi casi, per quanto riguarda il lavoratore, è d’altro canto necessario che egli faccia pervenire immediatamente una raccomandata A/R nella quale lo stesso si ponga a disposizione per la ripresa immediata dell’attività dando conto del fatto di essere stato allontanato dal datore di lavoro.

 

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22. Naspi e risoluzione consensuale del rapporto di lavoro

Naspi e risoluzione consensuale del rapporto di lavoro

Naspi è l’acronimo di Nuova assicurazione sociale per l’impiego ed è una misura sociale, introdotta in Italia nel 2015, che viene erogata dall’Istituto nazionale di previdenza sociale (Inps) e serve ad assicurare il lavoratore dalla perdita involontaria del lavoro.

La Naspi spetta ai dipendenti che hanno versato i contributi all’Inps, per cui non viene percepita dai lavoratori che sono iscritti in altre gestioni previdenziali.

Il tipo di contratto di lavoro che dà diritto alla NASPI è solo il contratto di lavoro subordinato. Sono inclusi:

  • i lavoratori assunti con contratto di apprendistato;
  • i soci lavoratori di cooperative con rapporto di lavoro subordinato con le stesse cooperative;
  • il personale artistico assunto con rapporto di lavoro subordinato;
  • i lavoratori dipendenti a tempo determinato delle pubbliche amministrazioni.

Al contrario, sono esclusi:

  • i dipendenti a tempo indeterminato delle pubbliche amministrazioni;
  • gli operai agricoli a tempo determinato e indeterminato;
  • i lavoratori extracomunitari con permesso di soggiorno per lavoro stagionale;
  • i lavoratori che hanno maturato i requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato;
  • i titolari di assegno ordinario di invalidità, a meno che non optino per la Naspi.  

In buona sostanza, i presupposti per l’applicazione della NASPI sono:

  • l’assunzione con uno dei contratti di lavoro sopra indicati;
  • la disoccupazione involontaria e cioè a seguito di licenziamento del datore di lavoro;
  • la dichiarazione in forma telematica di immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro.

In generale la Naspi non spetta in caso di dimissioni del lavoratore o di risoluzione consensuale del dipendente, trattandosi di cessazioni del rapporto di lavoro volute, in tutto o in parte, dal dipendente stesso.

A tale regola ci sono però delle eccezioni e cioè dei casi in cui il dipendente può ottenere la Naspi, pur avendo preso l’iniziativa di cessare il rapporto di lavoro, ma solo in circostanze specifiche:

  • dimissioni per giusta causa;
  • dimissioni della lavoratrice madre, intervenute nel periodo della maternità tutelato per legge;
  • risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell’ambito della procedura di conciliazione presso l’Ispettorato territoriale del lavoro prevista in caso di licenziamento per motivi economici e cioè per giustificato motivo oggettivo, in aziende con più di quindici dipendenti e con riferimento ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015;
  • risoluzione consensuale determinata dal rifiuto del lavoratore di trasferirsi presso un’altra sede della stessa azienda, distante più di 50 chilometri dalla residenza del medesimo lavoratore e/o raggiungibile con i mezzi pubblici mediamente in 80 minuti o più.

Per ottenere la Naspi in caso di dimissioni per giusta causa, il dipendente deve in teoria attestare all’Inps la sua intenzione di far valere in giudizio i propri diritti. Se il giudice dovesse in ipotesi ritenere che non sussista la giusta causa delle dimissioni rassegnate, l’Inps potrebbe procedere al recupero delle somme erogate al lavoratore a titolo di Naspi.

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21. L’orario di lavoro per il dipendente che non ha un luogo fisso di lavoro

L’orario di lavoro per il dipendente che non ha un luogo fisso di lavoro

Con la sentenza 14 maggio 2019, C-55/18, Corte di Giustizia dell’Unione europea si è pronunciata su alcuni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro disciplinati dalla direttiva CE n. 88 del 2003 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 4 novembre 2013.

Con tale sentenza la Corte di Giustizia ribadisce che l’obiettivo della direttiva CE n. 88 del 2003 è fissare prescrizioni minime destinate a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori mediante un ravvicinamento delle disposizioni nazionali riguardanti la durata dell’orario di lavoro, anche prevedendo un sistema che consenta la misurazione dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore.

In particolare l’art. 2, punto 1, di tale direttiva definisce come “orario di lavoro” qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali.

Dalla sentenza in commento si può, quindi, dedurre che per i lavoratori che non hanno un luogo di lavoro fisso costituisce “orario di lavoro” il tempo che tali lavoratori impiegano per gli spostamenti quotidiani tra il loro domicilio e i luoghi in cui si trovano il primo e l’ultimo cliente indicato dal loro datore di lavoro.

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