Categoria: Lavoro Pagina 9 di 10

12. Il patto di non concorrenza post-contrattuale nel lavoro subordinato

Il patto di non concorrenza post-contrattuale nel lavoro subordinato

Nei contratti di lavoro subordinato viene a volte inserito dal datore di lavoro una clausola contenente il c.d. patto di non concorrenza post-contrattuale, che viene previsto specialmente nei rapporti di lavoro con i dirigenti.

La norma codicistica di riferimento è contenuta nell’art. 2125 del codice civile, che definisce il patto di non concorrenza come il “patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto”, stabilendo le seguenti tre condizioni di validità del patto stesso, il quale deve:

  • risultare da atto scritto;
  • prevedere un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro;
  • avere ad oggetto un vincolo di non concorrenza a carico del dipendente contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

Riguardo alla durata del vincolo, l’art. 2125 del codice civile prevede che:

  • tale patto non può comunque essere superiore a cinque anni se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi;
  • se viene pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura sopra indicata.

Riguardo alla quantificazione del corrispettivo del patto di non concorrenza e alla determinazione delle relative modalità di pagamento, la norma codicistica summenzionata lascia piena autonomia alle parti.

Il corrispettivo, ossia la remunerazione della (temporanea) limitazione della libertà del lavoratore di utilizzare le proprie capacità e competenze professionali, è quindi uno dei punti da sempre più delicati e discussi in materia di patto di non concorrenza.

Su tale punto la giurisprudenza è intervenuta più volte al fine di delimitare l’autonomia lasciata alle parti dall’art. 2125 del codice civile nell’ambito della “ragionevolezza” e della “congruità”.

Infatti la giurisprudenza è uniforme nel ritenere che – pur restando riservato, quanto alla sua determinazione, all’autonomia delle parti – il corrispettivo del patto di non concorrenza deve essere determinato o determinabile al momento della stipula del patto stesso e deve essere “congruo” in relazione all’oggetto, alla durata e all’ampiezza territoriale del vincolo di non concorrenza in capo al lavoratore. In mancanza di tali requisiti il patto è da considerarsi nullo.

Più precisamente, a seconda della misura del vincolo imposto al lavoratore, sono stati ritenuti come “congrui” corrispettivi compresi tra il 15% e il 35% della retribuzione annua lorda del dipendente a condizione che la capacità lavorativa del prestatore di lavoro non venisse totalmente inibita.

Al pari della quantificazione del corrispettivo del patto di non concorrenza è lasciata, come detto, all’autonomia delle parti anche la determinazione delle modalità di pagamento.

In proposito la giurisprudenza è unanime nel ritenere che il pagamento del corrispettivo del patto di non concorrenza possa avvenire alla conclusione del rapporto di lavoro in un’unica soluzione o in più rate concordate dalle parti sia nel loro ammontare che nella loro tempistica, mentre invece non è univoca nel ritenere legittima in generale la facoltà per il datore di lavoro di corrispondere detto corrispettivo nel corso del rapporto di lavoro, che viene consentita solo a determinate condizioni.

Difatti, a pena di nullità, un orientamento giurisprudenziale pone le seguenti due condizioni di legittimità per il pagamento del corrispettivo del patto nel corso del rapporto di lavoro:

  • la quota periodica normalmente mensile versata a titolo di corrispettivo del patto deve essere scorporata dalla retribuzione ed evidenziata in busta paga;
  • tale remunerazione deve comunque consistere in un importo complessivo determinato o determinabile al momento della stipula del patto.

Pertanto si pone il problema che nel caso di rapporto a tempo indeterminato, la seconda condizione sopra specificata non può essere certamente rispettata se il corrispettivo viene pagato in quote fisse mensili o comunque periodiche, posto che al momento della stipula è impossibile stabilirne l’esatto ammontare.

Un’eventuale soluzione a questa criticità potrebbe essere quella di:

  • costruire una remunerazione che preveda un tetto minimo del corrispettivo del patto di non concorrenza, che sia rispondente nel caso specifico al criterio della “congruità” e della “ragionevolezza”; e
  • pattuire che l’eventuale quota di tale tetto minimo di corrispettivo non ancora versata al momento della cessazione del rapporto di lavoro venga corrisposta al dipendente in seguito a tale cessazione.

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11. A partire dall’1 gennaio 2018 assunzioni agevolate per i giovani lavoratori

A partire dall’1 gennaio 2018 assunzioni agevolate per i giovani lavoratori

Le novità in materia di lavoro contenute nella Legge di Bilancio 2018 riguardano principalmente le assunzioni agevolate per i giovani disoccupati da parte di datori di lavoro che nei 6 mesi precedenti l’assunzione non hanno proceduto a licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo ovvero a licenziamenti collettivi nella medesima unità produttiva.

Dall’1 gennaio 2018, per 3 anni, i suddetti datori di lavoro potranno usufruire di uno sgravio del 50% dei contributi INPS sulle assunzioni di disoccupati che non hanno ancora compiuto 30 anni d’età o 35 anni d’età limitatamente al 2018, nell’importo massimo pari a € 3.000,00 su base annua, riparametrato e applicato su base mensile.

Tale sgravio consiste nell’esonero dal versamento della metà dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro (fino a un massimo di € 3.000,00 all’anno) per un periodo massimo di 36 mesi (3 anni), con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL.

Dall’1 gennaio 2018 le aziende potranno usufruire dello stesso esonero dal pagamento del 50% dei contributi INPS per le conversioni di rapporti di apprendistato o a termine e più precisamente: (i) nel caso di prosecuzione di un contratto di apprendistato in contratto a tempo indeterminato a partire dall’1 gennaio 2018, indipendentemente dall’età anagrafica del lavoratore alla data della prosecuzione; (ii) nel caso di conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato a partire al 1° gennaio 2018, fermo restando il possesso dei suddetti requisiti anagrafici alla data di conversione.

Lo sgravio dei contributi INPS sale al 100% (sempre con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL e fino al limite di € 3.000,00 all’anno), in caso di assunzione entro 6 mesi dall’acquisizione del titolo di studio di studenti che con il datore di lavoro hanno svolto periodi di alternanza scuola – lavoro per almeno il 30% del monte ore previsto per tale attività ovvero hanno svolto con il datore di lavoro percorsi di apprendistato per la qualifica o il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore, il certificato di specializzazione tecnica superiore o periodi di apprendistato in alta formazione.

Nella Legge di Bilancio 2018 viene precisato che tali sgravi si applicano a tutti i datori di lavoro che a partire dall’1 gennaio 2018 effettueranno assunzioni con contratto di lavoro a tutele crescenti di giovani che non hanno compiuto i 30 anni di età e non risultano essere stati occupati a tempo indeterminato con lo stesso o con altri datori di lavoro. Limitatamente alle assunzioni che verranno effettuate nel corso dell’anno 2018 gli incentivi in esame saranno riconosciuti anche in caso di assunzione di persone che non hanno compiuto 35 anni d’età.

Nel caso in cui il lavoratore, per la cui assunzione a tempo indeterminato sia stato già parzialmente fruito l’esonero, venga nuovamente assunto da altri datori di lavoro, il beneficio dello sgravio contributivo sarà riconosciuto per il periodo residuo utile alla piena fruizione, e cioè la restante parte dei 36 mesi di durata complessiva, indipendentemente dall’età anagrafica del giovane lavoratore alla data in cui avverrà la nuova assunzione.

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10. Indicazioni operative sulle videocamere e fotocamere nei luoghi di lavoro

Indicazioni operative sulle videocamere e fotocamere nei luoghi di lavoro

Sono numerose le imprese che intendono procedere all’installazione di impianti di allarme o antifurto dotati anche di videocamere o fotocamere che si attivano, automaticamente, in caso di intrusione da parte di terzi all’interno dei luoghi di lavoro.

L’installazione di tali impianti, finalizzati alla tutela del patrimonio aziendale, prevedendo comunque la presenza di videocamere o fotocamere, rappresenta una fattispecie rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 4 della legge n. 300/1970 (“Statuto dei Lavoratori”) ed è soggetta quindi alla preventiva procedura di accordo con la RSU (Rappresentanza Sindacale Unitaria) o le RSA (Rappresentanze Sindacali Aziendali) ovvero all’autorizzazione da parte dell’Ispettorato del Lavoro.

Infatti Il primo comma del citato art. 4 prevede che: “Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione della sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi.”.

Con la Nota n. 299 del 28 novembre 2017 l’Ispettorato del Lavoro ha ritenuto opportuno fornire ai propri Uffici Territoriali indicazioni operative finalizzate, da un lato, a uniformarne l’operatività e, dall’altro, a rendere più celeri le procedure autorizzative connesse a tali particolari impianti.

In particolare nella Nota 28 novembre 2017 n. 299 dell’Ispettorato del Lavoro si legge che:

  • gli impianti di allarme e antifurto dotati anche di videocamere e fotocamere, essendo evidentemente finalizzati alla tutela del patrimonio aziendale, trovano la loro legittimazione nel primo comma dell’art. 4 sopra riportato;
  • qualora le videocamere o fotocamere si attivino esclusivamente con l’impianto di allarme inserito, non sussiste alcuna possibilità di controllo “preterintenzionale” sul personale, per cui non vi sono motivi ostativi al rilascio del provvedimento;
  • conseguentemente, in relazione all’evidente esigenza di celerità nell’attivazione dei predetti impianti, il provvedimento autorizzativo va rilasciato in tempi assolutamente rapidi in quanto non occorre una valutazione istruttoria.

In buona sostanza, con riferimento alle videocamere o fotocamere che si attivano automaticamente con l’impianto di allarme inserito ed in caso di intrusione da parte di terzi all’interno dei luoghi di lavoro, l’Ispettorato del Lavoro giustifica senz’altro i provvedimenti autorizzatori di installazione e utilizzazione di tali strumenti, invitando i propri Uffici Territoriali al relativo rilascio alle imprese richiedenti in tempi stretti e senza istruttoria.

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9. I diritti d’autore nel rapporto di lavoro subordinato

Può accadere che un lavoratore dipendente, durante l’esecuzione del rapporto di lavoro subordinato o al di fuori dell’orario e del luogo di lavoro, realizzi un’opera, un’invenzione, ovvero crei qualcosa di nuovo (ad esempio, un oggetto, un processo produttivo o un software), che sia suscettibile di essere utilizzato o di avere un’applicazione industriale.

Il Codice della proprietà industriale disciplina i diritti d’autore nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, prevedendo espressamente che i diritti di cui è titolare il lavoratore – al quale spetta sempre il diritto morale di essere riconosciuto autore dell’invenzione e cioè il diritto alla paternità dell’opera – cambiano a seconda del contesto in cui l’invenzione è realizzata; più precisamente si parla di:

  • Invenzioni di servizio, nel caso in cui il dipendente viene assunto proprio per svolgere attività creativa e/o di ricerca e viene retribuito proprio a tal fine. Nell’ipotesi di invenzioni in adempimento di un contratto di lavoro, i diritti patrimoniali che ne discendono appartengono automaticamente al datore di lavoro.
  • Invenzioni di azienda, nel caso in cui il dipendente non è assunto proprio al fine di inventare, creare, ricercare o studiare, ma accade che nell’esecuzione delle proprie mansioni realizzi qualcosa di nuovo. In tali ipotesi i diritti derivanti dall’invenzione appartengono al datore di lavoro, ma il lavoratore ha diritto a un equo premio, cioè un compenso apposito, che viene determinato sulla base di molti fattori, tra cui: le mansioni svolte, la retribuzione, l’importanza dell’invenzione, ma anche l’apporto che l’organizzazione del datore di lavoro ha fornito al lavoratore autore dell’invenzione.
  • Invenzioni occasionali, nel caso in cui il dipendente ponga in essere, fuori dall’orario di lavoro, un’invenzione che riguardi il campo di attività del datore di lavoro. In tale ipotesi è il lavoratore a essere titolare dei diritti patrimoniali e di brevetto. Se però il lavoratore non vuole sfruttare personalmente l’invenzione o l’opera, il datore di lavoro ha un diritto di opzione sull’uso di tale invenzione o di tale opera. Anche in questo caso spetta al dipendente una somma di denaro, fermo restando il diritto alla paternità dell’opera come nelle altre due ipotesi sopra descritte.

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8. Abuso della connessione internet del PC aziendale

Abuso della connessione internet del PC aziendale

Con la sentenza n. 14862 del 2017 la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla legittimità del licenziamento di un lavoratore per abuso della connessione internet del PC aziendale.

In particolare con la suddetta sentenza la Suprema Corte ha respinto il ricorso di un impiegato, ritenendo legittima l’adozione di un provvedimento espulsivo nei confronti del dipendente, che aveva utilizzato in modo eccessivo, intenzionale e reiterato nel tempo la connessione internet aziendale per scopi personali.

Di tale sentenza appaiono particolarmente interessanti le considerazioni della Corte di Cassazione su alcuni motivi del ricorso del lavoratore; e più precisamente:

  • Il fatto che il ricorrente non fosse stato posto nelle condizioni di conoscere tempestivamente le disposizioni sull’utilizzo degli apparati, contenute nel regolamento aziendale 1 luglio 2011, è stato ritenuto dalla Suprema Corte come non attinente al requisito di specificità che deve possedere la contestazione disciplinare, operando sul diverso piano dell’ascrizione di una condotta di cui si assume che non potesse essere nota al lavoratore la illiceità. In altri termini, la condotta accertata, riassunta dai Giudici del merito in “un ampio e indebito utilizzo dello strumento aziendale per finalità estranee all’attività lavorativa”, è stata ritenuta dalla Cassazione contraria alle “elementari regole del vivere comune” e al contenuto precettivo tanto dell’art. 2104 del codice civile, come dell’art. 100 CCNL di settore, entrambi esplicitamente richiamati nella lettera di contestazione ricevuta dal lavoratore.
  • L’onere di pubblicità del cosiddetto codice disciplinare, previsto dalla legge n. 300 del 1970, art. 7, comma 1, si applica al licenziamento disciplinare soltanto nei limiti in cui questo sia stato intimato per una delle specifiche ipotesi di comportamento illecito vietate e sanzionate con il provvedimento espulsivo da norme della contrattazione collettiva o da quelle validamente poste dal datore di lavoro entrambe soggette all’obbligo della pubblicità per l’esigenza di tutelare il lavoratore contro il rischio di incorrere nel licenziamento per fatti da lui non preventivamente conosciuti come mancanze. Tuttavia tale onere di pubblicità non si applica quando, senza avvalersi di una delle suddette specifiche ipotesi, il datore di lavoro contesti un comportamento che, secondo quanto accertato in fatto dal Giudice del merito, integri una violazione di una norma penale, o sia manifestamente contrario all’etica comune, ovvero concreti un grave o comunque notevole inadempimento dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà prescritti dagli artt. 2104 e 2105 del codice civile, poiché in tali casi il potere di licenziamento deriva direttamente dalla legge (art. 2119 del codice civile e legge n. 604 del 1966, artt. 1 e 3).
  • È controllo a distanza ai sensi della legge n. 300 del 1970, art. 4, l’attività che abbia ad oggetto la prestazione lavorativa e il suo esatto adempimento. Resta invece esclusa dal campo di applicazione della predetta norma quell’attività del datore di lavoro che sia volta a individuare la realizzazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, idonei a ledere il patrimonio aziendale sotto il profilo della sua integrità e del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti.

Pertanto, nel presupposto dell’ininfluenza della mancata consegna del regolamento aziendale e della essenziale rilevanza, al contrario, di un ampio e indebito utilizzo dello strumento, in contrasto con le regole elementari del vivere comune, la Suprema Corte ha confermato la sentenza della Corte d’Appello che aveva proceduto ad un’articolata ricognizione della fattispecie, prendendo in esame l’insieme complessivo delle circostanze del caso concreto, anche di natura soggettiva, ponendo in rilievo come ci si trovava di fronte “ad un utilizzo della dotazione aziendale per fini personali non sporadica e/o eccezionale, bensì sistematica in considerazione della frequenza (complessivamente 27 connessioni), della durata dell’accesso (complessivamente 45 ore) e dello scambio di dati di traffico (migliaia di kbyte)”.

Sulla base di tali elementi, oltre che della loro correlazione al “ruolo” di responsabilità che l’impiegato ricopriva in azienda (“di controllore della qualità dei sinistri sul territorio nazionale“), la Corte di Cassazione è dunque pervenuta a ritenere legittima l’adozione di un provvedimento espulsivo del dipendente.

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7. Licenziabile chi svolge attività extra-lavorativa in malattia se mette a rischio la guarigione

Licenziabile chi svolge attività extra-lavorativa in malattia se mette a rischio la guarigione

Con la sentenza n. 19089 dell’1 agosto 2017 la Corte di Cassazione Sezione Lavoro è tornata a pronunciarsi sulla legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente in caso di attività extra-lavorativa durante il periodo di assenza per infortunio.

Nel caso deciso dalla Suprema Corte con la pronuncia in esame, il lavoratore ha adito il Tribunale di Roma per chiedere che tale licenziamento fosse dichiarato illegittimo con tutte le relative conseguenze, ma il Giudice del Lavoro di primo grado ha respinto la domanda del dipendente, il quale ha proposto ricorso in appello avanti la Corte di Appello di Roma, che ha evidenziato come la prova della giusta causa del recesso datoriale fosse emersa dall’attività istruttoria espletata dal giudice di primo grado ed ha quindi confermato la decisione del Tribunale di Roma. Avverso la sentenza del Giudice di secondo grado il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, cui ha resistito l’azienda.

Con la pronuncia in esame la Suprema Corte ha respinto tale ricorso, precisando che:

  • costituisce illecito disciplinare l’espletamento di attività extra-lavorativa da parte del dipendente durante il periodo di assenza per malattia, non solo se da tale comportamento derivi un’effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa sia solo messa in pericolo dalla condotta imprudente del lavoratore stesso;
  • in tema di lavoro subordinato, le disposizioni dell’art. 5 dello Stato dei Lavoratori (che stabiliscono il divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla facoltà dello stesso datore di lavoro di effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti) non precludono al datore medesimo di procedere ad accertamenti su circostanze di fatto volte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa e/o lo svolgimento da parte del lavoratore di un’attività extra-lavorativa, che ne pregiudichi la guarigione o la relativa tempestività. 

 

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6. I limiti alla facoltà di recesso durante il periodo di prova

Il codice civile disciplina l’assunzione del lavoratore in prova nell’art. 2096 c.c., il quale prevede che:

  • l’assunzione del lavoratore con periodo di prova deve innanzitutto risultare da atto scritto;
  • il datore di lavoro e il dipendente sono rispettivamente tenuti a consentire e fare espletare la prova;
  • durante il periodo di prova, senza alcun obbligo di preavviso o d’indennità ciascuna delle parti può recedere dal contratto, salvo che la prova non sia stabilita per un tempo minimo necessario. In tal caso, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine minimo stabilito dalle parti;
  • compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato dal lavoratore si computa nella sua anzianità.

In buona sostanza, secondo la suddetta disposizione del codice civile, durante il periodo di prova, entrambe le parti di un rapporto di lavoro sono libere di recedere da tale rapporto, senza obbligo di motivazione e senza obbligo di dare il preavviso e/o di pagare la relativa indennità sostitutiva.

Tuttavia, secondo la giurisprudenza, le parti non possono interrompere la prova prima che sia trascorso un periodo tale da consentire l’effettività della prova stessa.

In particolare, per quanto riguarda il datore di lavoro, la discrezionalità di licenziare un dipendente durante il periodo di prova incontra dei limiti elaborati dalla giurisprudenza, la quale ha ritenuto illegittimo il recesso durante il periodo di prova, qualora la stessa prova non sia stata effettivamente consentita.

Tale situazione si verifica nel caso in cui:

  • al lavoratore non siano state effettivamente attribuite le mansioni indicate nel contratto;
  • la verifica sia stata condotta su mansioni diverse da quelle di assunzione, sia esse inferiori o superiori;
  • il periodo di verifica sia stato inadeguato a permettere un’idonea valutazione delle capacità del lavoratore.

Inoltre, per quanto riguarda le conseguenze di un illegittimo recesso in prova da parte del datore di lavoro, in giurisprudenza sussistono due distinti orientamenti e più precisamente:

  • in base ad un primo orientamento, l’illegittimità del recesso in prova implica che al lavoratore sia riconosciuto il diritto di terminare la prova e di ottenere il pagamento della retribuzione per il periodo residuo;
  • in base ad un secondo orientamento, invece, l’illegittimità del recesso in prova implica che al lavoratore sia riconosciuto (solo) il risarcimento dei danni per responsabilità contrattuale del datore di lavoro, non essendo applicabile al lavoratore in prova il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Per evitare tali criticità, ripetutamente evidenziate dalla giurisprudenza, occorre quindi prestare attenzione a:

  • indicare nel patto di prova le mansioni oggetto di verifica;
  • effettuare la prova stessa su tali mansioni;
  • concordare – ad eventuale tutela di entrambe le parti – una durata minima del patto di prova.

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5. Le nuove possibilità di modifica delle mansioni

Le nuove possibilità di modifica delle mansioni

Dal 25 giugno 2015 è in vigore la nuova disciplina sulle mansioni introdotta dal Jobs Act e contenuta nell’art. 2103 del codice civile.

Tale disciplina si applica a tutti i rapporti di lavoro subordinato, senza alcuna distinzione in base alla categoria e/o alla data di assunzione.

Le nuove possibilità di modifica delle mansioni consistono nel fatto che:

  • il datore di lavoro può assegnare al lavoratore qualsiasi mansione tra quelle previste dal C.C.N.L. di riferimento, che sia riconducibile allo stesso livello ed alla stessa categoria di inquadramento (dirigente, quadro, impiegato, operaio) delle ultime effettivamente svolte dal medesimo lavoratore, anche se non aderenti alle specifiche competenze acquisite in precedenza, purché a parità di categoria legale e di livello contrattuale;
  • il datore di lavoro, in caso di una modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore, può adibire quest’ultimo ad una attività corrispondente ad un livello contrattuale inferiore, pur nel rispetto della categoria legale (ciò, ovviamente, presuppone che il C.C.N.L. di riferimento preveda più livelli per la medesima categoria di inquadramento);
  • il lavoratore, previa stipulazione di un accordo individuale in sede protetta, può accettare una modifica delle mansioni più ampia rispetto a quella consentita unilateralmente al datore di lavoro, qualora tale accordo sia finalizzato al conseguimento di un risultato utile al medesimo lavoratore, ossia la conservazione dell’occupazione, l’acquisizione di una diversa professionalità, oppure il miglioramento delle condizioni di vita;
  • il lavoratore può rinunciare al livello di inquadramento superiore corrispondente alle ultime mansioni svolte per un periodo non inferiore a sei mesi, con ogni conseguenza anche in relazione all’eventuale differente regime di tutele in caso di licenziamento.

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4. Dal 12 marzo 2016 in vigore la nuova procedura sulle dimissioni e sulle risoluzioni consensuali

Dal 12 marzo 2016 in vigore la nuova procedura sulle dimissioni e sulle risoluzioni consensuali

Il 12 marzo 2016 entrerà in vigore la nuova procedura telematica sulle modalità di comunicazione delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali, che è stata introdotta da uno dei decreti attuativi del Jobs Act, il decreto legislativo n. 151 del 14 settembre 2015.

Attraverso le modalità telematiche ed il sistema della doppia autenticazione, la nuova procedura introdotta dal Jobs Act, si prefigge l’obiettivo di garantire:

  • il riconoscimento certo del soggetto che effettua la trasmissione (verifica dell’identità);
  • la data certa di trasmissione della comunicazione (c.d. marca temporale);
  • la possibilità di revoca della comunicazione entro 7 giorni dalla trasmissione;
  • l’intervento di un soggetto abilitato per supportare il lavoratore nelle comunicazioni.

Se non si rispetterà la nuova procedura telematica, a partire dal 12 marzo 2016 le dimissioni e le risoluzioni consensuali saranno inefficaci.

Tale inefficacia, finalizzata a garantire la c.d. “genuinità” delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali, rischia tuttavia di produrre in alcuni casi effetti paradossali.

Infatti il rapporto di lavoro non si interromperà del tutto, se il dipendente si dimetterà con una comunicazione scritta senza utilizzare il modulo telematico o senza effettuare tutte le operazioni previste dalla nuova procedura.

In pratica, il datore di lavoro potrebbe correre il rischio di ritrovarsi come dipendente il lavoratore che volesse tornare in azienda anche molti mesi dopo aver comunicato le proprie dimissioni, senza però rispettare la nuova procedura telematica. Di conseguenza, non va escluso che dal 12 marzo 2016 il datore di lavoro potrebbe addirittura trovarsi di fronte alla necessità di dover chiudere di sua iniziativa il rapporto, licenziando – previo procedimento disciplinare – il lavoratore dimissionario, che non abbia rispettato la nuova procedura telematica disciplinata dal decreto legislativo n. 151 del 14 settembre 2015.

Inoltre con l’entrata in vigore della nuova procedura non verrà del tutto superata l’attuale procedura di convalida delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali stabilita dalla c.d. Riforma Fornero, che continuerà ad applicarsi nei seguenti casi:

  • dimissioni e risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro con le lavoratrici madri durante la gravidanza;
  • dimissioni e risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro con le madri o con i padri nei primi tre anni di vita del bambino;
  • dimissioni e risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro con le madri o con i padri nei primi tre anni dalle comunicazioni di proposta di incontro con il minore adottando o dall’invito ai genitori adottivi a recarsi all’estero, a seconda di come si svolga l’iter di adozione internazionale.

La nuova procedura telematica non si applicherà neppure al lavoro domestico e nel caso di dimissioni e risoluzioni consensuali intervenute presso le sedi protette o le commissioni di certificazione.

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3. Dopo l’attuazione del Jobs Act, necessari per le aziende check up e revisione di modelli e prassi

Dopo l’attuazione del Jobs Act, necessari per le aziende check up e revisione di modelli e prassi

Dopo che tutti gli otto decreti attuativi del Jobs Act sono stati approvati, ad inizio 2016 le aziende si trovano di fronte all’esigenza di attuare al loro interno tale riforma, revisionando i modelli contrattuali, le lettere di assunzione, le lettere sulle mansioni, le prassi nonché le regole relative agli strumenti di lavoro ed ai controlli a distanza.

Innanzitutto con il decreto legislativo sulle tutele crescenti le aziende sono state poste di fronte alla necessità di gestire un doppio binario: uno per i vecchi assunti (e cioè per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015) e l’altro per i nuovi assunti (e cioè per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015).

Per i lavoratori assunti dal 7 marzo del 2015 il decreto legislativo sulle tutele crescenti fa, infatti, sorgere la necessità di modificare le lettere di assunzione ed i codici disciplinari, la procedura da seguire in caso di licenziamenti fondati su un giustificato motivo oggettivo, il contenuto delle lettere di licenziamento e la procedura da applicare per la loro consegna, oltre che i testi degli accordi in caso conciliazione.

Tutti questi cambiamenti non sono, invece, da implementare per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, a cui continuano ad applicarsi le vecchie regole.

Per contro, il problema del doppio binario non si pone per il decreto legislativo che ha riorganizzato tutti i rapporti di lavoro flessibili e speciali (v. lavoro a tempo determinato, somministrazione di manodopera, apprendistato), in quanto tale decreto si applica a tutti i lavoratori a prescindere dalla loro data di assunzione. Tuttavia in tal caso è necessario sia un aggiornamento di tutti i riferimenti normativi contenuti nei modelli di contratto già utilizzati, sia una revisione del loro contenuto, in considerazione della nuova disciplina di ciascuna tipologia di rapporto lavoro flessibile e speciale.

Per quanto riguarda poi gli standard di contratto di collaborazione a progetto, le aziende dovranno sostituirli con un nuovo tipo di contratto di collaborazione coordinata e continuativa, essendo entrata in vigore dall’1 gennaio 2016 la nuova disciplina sulle collaborazioni a partita IVA ed essendo anche stati aboliti da tale data i contratti di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co) e quelli di lavoro a progetto.

Inoltre è stata introdotta una nuova disciplina delle mansioni, che impone altresì un adeguamento delle formule aziendali finora utilizzate per il cambiamento delle mansioni.

Per i controlli a distanza diventa poi necessario aggiornare l’informativa prevista dall’articolo 13 del Codice della privacy ed è opportuno identificare quali sono gli strumenti funzionali allo svolgimento della prestazione lavorativa.

Infine diverse modifiche procedurali sono state introdotte relativamente alla tenuta del Libro unico del lavoro, alla gestione del collocamento obbligatorio, alla sicurezza sul lavoro ed al distacco internazionale, che richiederanno anch’esse per le aziende la necessità di una revisione dei modelli contrattuali e delle prassi da seguire.

In buona sostanza, dopo che tutti i decreti attuativi del Jobs Act sono stati approvati, si apre una lunga stagione di implementazione della riforma, la cui parte più importante dovrà essere attuata sui luoghi di lavoro, proprio ad opera delle aziende.

Le aziende dovranno, dunque, analizzare fino in fondo le innovazioni contenute negli otto decreti attuativi del Jobs Act, in modo da adottare modelli contrattuali e prassi conformi alle varie novità introdotte dal Jobs Act.

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