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15. Il contratto di lavoro a tempo determinato dopo il c.d. Decreto Dignità

Il contratto di lavoro a tempo determinato dopo il c.d. Decreto Dignità

Il decreto legge n. 87 del 12 luglio 2018 (c.d. “Decreto Dignità”), convertito in legge n. 96 del 9 agosto 2018, ha introdotto rilevanti novità alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, modificando il decreto legislativo n. 81 del 15 giugno 2015 (c.d. “Job Act”).

Per favorire l’uniforme applicazione della nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha fornito al riguardo le prime indicazioni interpretative con la circolare n. 17 del 31 ottobre 2018.

Nel presente articolo si inizierà ad illustrare la nuova disciplina del contratto a tempo determinato partendo dalla “causale” e dal c.d. periodo transitorio.

Le modifiche alla disciplina previgente del contratto di lavoro a tempo determinato apportate dall’articolo 1, comma 1, del decreto legge n. 87 del 2018 (c.d. “Decreto Dignità”) riguardano in primo luogo la riduzione da 36 a 24 mesi della durata massima del contratto a tempo determinato con riferimento ai rapporti stipulati tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, anche per effetto di una successione di contratti conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale, indipendentemente dai periodi di interruzione.

Più precisamente le parti possono stipulare liberamente un contratto di lavoro a termine di durata non superiore a 12 mesi, mentre in caso di durata superiore a 12 mesi tale possibilità è riconosciuta esclusivamente in presenza delle seguenti motivazioni:

  • esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività;
  • esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
  • esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.

Per stabilire se ci si trovi in presenza dell’obbligo di inserire la “causale” si deve tener conto della durata complessiva dei rapporti di lavoro a termine intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, considerando sia la durata di quelli già conclusi, sia la durata di quello che si intende eventualmente prorogare.

Ad esempio nel caso di un rapporto a termine della durata di 10 mesi che si intenda prorogare di ulteriori 6 mesi, anche se la proroga interviene quando il rapporto non ha ancora superato i 12 mesi, sarà comunque necessario indicare come “causale” una delle esigenze sopra indicate, in quanto complessivamente il rapporto di lavoro avrà una durata superiore al suddetto limite temporale di 12 mesi.

Infatti la c.d. “causale” è sempre necessaria quando si supera il periodo di 12 mesi, anche se il superamento avviene a seguito di proroga di un contratto originariamente inferiore ai 12 mesi.

Peraltro è utile ricordare che anche nelle ipotesi in cui non è richiesto al datore di lavoro di indicare le motivazioni introdotte dal c.d. “Decreto Dignità”, le stesse dovranno essere comunque indicate per usufruire dei benefici previsti da altre disposizioni di legge (ad esempio per gli sgravi contributivi riconosciuti ai datori di lavoro che assumono a tempo determinato in sostituzione di lavorartici e lavoratori in congedo).

Il decreto legge in esame non ha, invece, modificato la previsione di cui all’articolo 19, comma 3, del decreto legislativo n. 81/2015 (c.d. “Job Act”) in base al quale, raggiunto il limite massimo di durata del contratto a termine, le parti possono stipulare un ulteriore contratto della durata massima di 12 mesi presso le sedi territorialmente competenti dell’Ispettorato nazionale del lavoro. Anche a tale contratto si applica la nuova disciplina dei rinnovi, la quale impone l’obbligo di individuazione della “causale”: mantengono quindi validità le indicazioni a suo tempo fornite dello stesso Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con la circolare n. 13/2008 in merito alla “verifica circa la completezza e la correttezza formale del contenuto del contratto”, nonché alla “genuinità del consenso del lavoratore alla sottoscrizione dello stesso, senza che tale intervento possa determinare effetti certificativi in ordine alla effettiva sussistenza dei presupposti giustificativi richiesti dalla legge.”.

Riguardo all’entrata in vigore della nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato si evidenzia che inizialmente nel c.d. “Decreto Dignità” era stato prevista l’applicazione delle nuove disposizioni ai contratti di lavoro a termine stipulati dopo la data di entrata in vigore del medesimo decreto, nonché ai rinnovi e alle proroghe dei contratti in corso alla medesima data.

Successivamente, in sede di conversione, è stato stabilito che  la nuova disciplina si applica ai rinnovi e alle proroghe dei contratti di lavoro a tempo determinato solo dopo il 31 ottobre 2018, per cui fino a tale data le proroghe e i rinnovi restano disciplinati dalle precedenti disposizioni del “Job Act”.

Dal 1° novembre 2018 si applicano, pertanto, ai contratti di lavoro a tempo determinato tutte le disposizioni introdotte dal “Decreto Dignità”.

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14. Legittima la compensazione tra il TFR del dipendente e il risarcimento dei danni causati dallo stesso dipendente

Legittima la compensazione tra il TFR del dipendente e il risarcimento dei danni causati dallo stesso dipendente

Con ordinanza del 26 aprile 2018 n. 10132 la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro ha confermato l’orientamento più recente della giurisprudenza in materia di compensazione c.d. atecnica o impropria tra crediti, anche di diversa natura, che scaturiscono da un unico rapporto di lavoro subordinato.

Nel caso di specie i crediti consistevano, da un lato, nel trattamento di fine rapporto di un lavoratore dipendente e, dall’altro, nei gravi danni subiti dalla datrice di lavoro a causa del comportamento illecito del dipendente, che era stato licenziato dall’azienda con riferimento a fatti emersi nell’ambito di un procedimento penale concernente episodi di corruzione, per i quali il medesimo lavoratore era stato sottoposto a misura cautelare.

Con il ricorso in cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano, la datrice di lavoro aveva chiesto che venisse riconosciuto il proprio diritto di opporre in compensazione, rispetto al trattamento di fine rapporto invocato dal dipendente, le proprie pretese risarcitorie.

La Suprema Corte ha accolto tale ricorso basando la sua decisione sulla legittimità della compensazione c.d. atecnica o impropria, quando la reciproca relazione di debito/credito trae origine da un unico rapporto (come è indubbiamente il rapporto di lavoro) ancorché le ragioni di credito siano fondate su titoli di diversa natura, l’una contrattuale (il trattamento di fine rapporto) e l’altra extra-contrattuale (il risarcimento danni).

Nell’ordinanza in commento viene ribadito dalla Corte di Cassazione che si è in presenza di compensazione c.d. impropria quando la reciproca relazione di debito/credito nasce da un unico rapporto (qual è indubbiamente il rapporto di lavoro), in cui l’accertamento contabile del saldo finale delle contrapposte partite può essere compiuto dal giudice d’ufficio, diversamente da quanto accade invece nel caso di compensazione c.d. propria, che, per operare, presuppone  l’autonomia dei rapporti e richiede l’eccezione di parte.

In buona sostanza, la Suprema Corte ha evidenziato che in tema di estinzione delle obbligazioni è configurabile la cosiddetta compensazione atecnica quando i crediti abbiano origine da un unico rapporto, la cui identità non è esclusa dal fatto che uno di essi abbia natura risarcitoria derivando da inadempimento, posto che in tal caso la valutazione delle reciproche pretese comporta l’accertamento del dare e avere, senza che sia necessaria la proposizione di un’apposita domanda riconvenzionale o di un’apposita eccezione di compensazione, che per contro presuppongono l’autonomia dei rapporti ai quali i crediti si riferiscono.

Sulla base di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha ribadito che, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1241 del codice civile, la disciplina della compensazione è applicabile anche nelle ipotesi in cui le reciproche ragioni di credito, pur avendo il loro comune presupposto nel medesimo rapporto, siano fondate su titoli aventi natura diversa e più precisamente tra crediti di natura contrattuale (ad esempio il trattamento di fine rapporto del dipendente) e crediti di natura extracontrattuale (ad esempio il risarcimento dei danni causati al datore di lavoro dai comportamenti illeciti del dipendente).

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13. Il contratto di prestazione occasionale

Il contratto di prestazione occasionale

L’articolo 54-bis del decreto legge 24 aprile 2017, n. 50 ha modificato la disciplina delle prestazioni di lavoro occasionali di natura subordinata, stabilendo la possibilità per i datori di lavoro di acquisire prestazioni di lavoro occasionali nei limiti previsti dalla stessa norma sopra menzionata, secondo due distinte modalità di utilizzo:

  • il Libretto Famiglia;
  • il Contratto di prestazione occasionale.

Le due tipologie di contratto di lavoro si riferiscono a diverse categorie di datori di lavoro e presentano profili di specificità in relazione all’oggetto della prestazione, alla misura minima dei compensi e dei connessi diritti di contribuzione sociale obbligatoria, nonché alle modalità di assolvimento degli adempimenti informativi verso l’INPS.

Ciò detto, sulla base delle previsioni del comma 1, dell’art. 54-bis, del citato decreto sono da intendersi per prestazioni di lavoro occasionali le attività lavorative che vengono rese nel rispetto delle previsioni che regolano i contratti di lavoro introdotti dalla norma (Libretto Famiglia e Contratto di prestazione occasionale) e dei seguenti limiti economici, tutti riferiti all’anno civile di svolgimento della prestazione lavorativa:

  1. per ciascun prestatore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori, a compensi di importo complessivamente non superiore a € 5.000,00;
  2. per ciascun utilizzatore, con riferimento alla totalità dei prestatori, a compensi di importo complessivamente non superiore a € 5.000,00;
  3. per le prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore dello stesso utilizzatore, a compensi di importo non superiore a € 2.500,00.

Detti importi sono riferiti ai compensi percepiti dal prestatore, ossia al netto di contributi, premi assicurativi e costi di gestione.

Ai fini del rispetto dei limiti di compenso annuo riferiti a ciascun utilizzatore con riguardo alla totalità dei prestatori, nell’ipotesi 2) la misura del compenso è calcolata sulla base del 75% del suo effettivo importo per le seguenti categorie di prestatori:

  • titolari di pensione di vecchiaia o di invalidità;
  • giovani con meno di venticinque anni di età, se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado ovvero a un ciclo di studi presso l’università;
  • persone disoccupate, ai sensi dell’articolo 19 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150;
  • percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione, ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito.

Nel caso di prestatori percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione e di altre prestazioni di sostegno del reddito, comprese le prestazioni erogate dai Fondi di solidarietà, l’INPS provvede a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa alle prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito, laddove prevista, gli accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni occasionali rese dal prestatore.

Diversamente, i limiti di compenso complessivo nell’ipotesi 1) e 3) e riferiti a ciascun singolo prestatore sono sempre da considerare nel loro valore nominale.

Il prestatore ha diritto al riposo giornaliero, alle pause e ai riposi settimanali.

L’erogazione del compenso al lavoratore avviene, entro il giorno 15 del mese successivo a quello di svolgimento della prestazione, a cura dell’INPS. In particolare, l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale provvede a conteggiare tutti i compensi relativi a prestazioni di lavoro occasione (Libretto di Famiglia e Contratto di prestazione occasionale) rese nell’ambito del mese e ad erogarli, nel loro importo totale, entro il giorno 15 del mese successivo a quello di svolgimento della prestazione, attraverso accredito delle somme sul conto corrente bancario fornito dal prestatore all’atto della registrazione o a seguito di successive variazioni dei dati anagrafici ovvero, in mancanza dell’indicazione dei dati bancari, attraverso bonifico bancario domiciliato che può essere riscosso presso uno degli uffici territoriali della rete di Poste Italiane S.p.A.

La gestione delle prestazioni occasionali, ivi inclusa l’erogazione del compenso ai prestatori, è supportata da un’apposita piattaforma telematica predisposta dall’INPS, fruibile attraverso l’accesso al sito internet dell’Istituto – www.inps.it – al seguente servizio: Prestazioni Occasionali.

Gli adempimenti di registrazione, da parte degli utilizzatori e dei prestatori, nonché di comunicazione dei dati relativi alla prestazione lavorativa possono essere svolti:

  • direttamente dall’utilizzatore/prestatore, attraverso l’accesso alla citata piattaforma telematica con l’utilizzo delle proprie credenziali personali;
  • avvalendosi dei servizi di contact center INPS, che gestiranno, per conto dell’utente (utilizzatore/prestatore), lo svolgimento delle attività di registrazione e/o degli adempimenti di comunicazione della prestazione lavorativa. Anche in tal caso, è preliminarmente necessario che l’utente risulti in possesso delle credenziali personali.

Le operazioni di registrazione e di svolgimento degli adempimenti informativi possono essere altresì svolte dagli intermediari di cui alla legge 11 gennaio 1979, n. 12 e dagli enti di patronato di cui alla 30 marzo 2001, n. 152, esclusivamente per i seguenti servizi:

  • registrazione del prestatore;
  • tutti gli adempimenti relativi all’utilizzo del Libretto Famiglia da parte dell’utilizzatore e del prestatore.

Infine la norma in esame prevede dei limiti e dei divieti all’utilizzo delle prestazioni occasionali:

  • è previsto un limite di durata (per tutte le prestazioni occasionali) pari a 280 ore nell’arco dello stesso anno civile;
  • non è possibile fare ricorso a prestazioni di lavoro occasionali da parte di lavoratori con i quali l’utilizzatore abbia in corso un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione coordinata e continuativa;
  • non è possibile fare ricorso a prestazione di lavoro occasionali nel caso in cui l’utilizzatore abbia avuto con il prestatore, entro i sei mesi precedenti la prevista prestazione di lavoro occasionale, un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione coordinata e continuativa;
  • il ricorso al contratto di prestazione occasionale non è ammesso ai datori di lavoro che hanno alle proprie dipendenze più di cinque lavoratori subordinati a tempo indeterminato. Al riguardo, allo scopo di semplificare gli adempimenti da parte degli utilizzatori e di favorire lo svolgimento delle attività di controllo preventivo automatizzato da parte dell’INPS, il periodo da assumere a riferimento per il calcolo della forza aziendale con rapporto di lavoro a tempo indeterminato è il semestre che va dall’ottavo al terzo mese antecedente la data dello svolgimento della prestazione lavorativa occasionale.

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12. Il patto di non concorrenza post-contrattuale nel lavoro subordinato

Il patto di non concorrenza post-contrattuale nel lavoro subordinato

Nei contratti di lavoro subordinato viene a volte inserito dal datore di lavoro una clausola contenente il c.d. patto di non concorrenza post-contrattuale, che viene previsto specialmente nei rapporti di lavoro con i dirigenti.

La norma codicistica di riferimento è contenuta nell’art. 2125 del codice civile, che definisce il patto di non concorrenza come il “patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto”, stabilendo le seguenti tre condizioni di validità del patto stesso, il quale deve:

  • risultare da atto scritto;
  • prevedere un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro;
  • avere ad oggetto un vincolo di non concorrenza a carico del dipendente contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

Riguardo alla durata del vincolo, l’art. 2125 del codice civile prevede che:

  • tale patto non può comunque essere superiore a cinque anni se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi;
  • se viene pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura sopra indicata.

Riguardo alla quantificazione del corrispettivo del patto di non concorrenza e alla determinazione delle relative modalità di pagamento, la norma codicistica summenzionata lascia piena autonomia alle parti.

Il corrispettivo, ossia la remunerazione della (temporanea) limitazione della libertà del lavoratore di utilizzare le proprie capacità e competenze professionali, è quindi uno dei punti da sempre più delicati e discussi in materia di patto di non concorrenza.

Su tale punto la giurisprudenza è intervenuta più volte al fine di delimitare l’autonomia lasciata alle parti dall’art. 2125 del codice civile nell’ambito della “ragionevolezza” e della “congruità”.

Infatti la giurisprudenza è uniforme nel ritenere che – pur restando riservato, quanto alla sua determinazione, all’autonomia delle parti – il corrispettivo del patto di non concorrenza deve essere determinato o determinabile al momento della stipula del patto stesso e deve essere “congruo” in relazione all’oggetto, alla durata e all’ampiezza territoriale del vincolo di non concorrenza in capo al lavoratore. In mancanza di tali requisiti il patto è da considerarsi nullo.

Più precisamente, a seconda della misura del vincolo imposto al lavoratore, sono stati ritenuti come “congrui” corrispettivi compresi tra il 15% e il 35% della retribuzione annua lorda del dipendente a condizione che la capacità lavorativa del prestatore di lavoro non venisse totalmente inibita.

Al pari della quantificazione del corrispettivo del patto di non concorrenza è lasciata, come detto, all’autonomia delle parti anche la determinazione delle modalità di pagamento.

In proposito la giurisprudenza è unanime nel ritenere che il pagamento del corrispettivo del patto di non concorrenza possa avvenire alla conclusione del rapporto di lavoro in un’unica soluzione o in più rate concordate dalle parti sia nel loro ammontare che nella loro tempistica, mentre invece non è univoca nel ritenere legittima in generale la facoltà per il datore di lavoro di corrispondere detto corrispettivo nel corso del rapporto di lavoro, che viene consentita solo a determinate condizioni.

Difatti, a pena di nullità, un orientamento giurisprudenziale pone le seguenti due condizioni di legittimità per il pagamento del corrispettivo del patto nel corso del rapporto di lavoro:

  • la quota periodica normalmente mensile versata a titolo di corrispettivo del patto deve essere scorporata dalla retribuzione ed evidenziata in busta paga;
  • tale remunerazione deve comunque consistere in un importo complessivo determinato o determinabile al momento della stipula del patto.

Pertanto si pone il problema che nel caso di rapporto a tempo indeterminato, la seconda condizione sopra specificata non può essere certamente rispettata se il corrispettivo viene pagato in quote fisse mensili o comunque periodiche, posto che al momento della stipula è impossibile stabilirne l’esatto ammontare.

Un’eventuale soluzione a questa criticità potrebbe essere quella di:

  • costruire una remunerazione che preveda un tetto minimo del corrispettivo del patto di non concorrenza, che sia rispondente nel caso specifico al criterio della “congruità” e della “ragionevolezza”; e
  • pattuire che l’eventuale quota di tale tetto minimo di corrispettivo non ancora versata al momento della cessazione del rapporto di lavoro venga corrisposta al dipendente in seguito a tale cessazione.

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11. A partire dall’1 gennaio 2018 assunzioni agevolate per i giovani lavoratori

A partire dall’1 gennaio 2018 assunzioni agevolate per i giovani lavoratori

Le novità in materia di lavoro contenute nella Legge di Bilancio 2018 riguardano principalmente le assunzioni agevolate per i giovani disoccupati da parte di datori di lavoro che nei 6 mesi precedenti l’assunzione non hanno proceduto a licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo ovvero a licenziamenti collettivi nella medesima unità produttiva.

Dall’1 gennaio 2018, per 3 anni, i suddetti datori di lavoro potranno usufruire di uno sgravio del 50% dei contributi INPS sulle assunzioni di disoccupati che non hanno ancora compiuto 30 anni d’età o 35 anni d’età limitatamente al 2018, nell’importo massimo pari a € 3.000,00 su base annua, riparametrato e applicato su base mensile.

Tale sgravio consiste nell’esonero dal versamento della metà dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro (fino a un massimo di € 3.000,00 all’anno) per un periodo massimo di 36 mesi (3 anni), con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL.

Dall’1 gennaio 2018 le aziende potranno usufruire dello stesso esonero dal pagamento del 50% dei contributi INPS per le conversioni di rapporti di apprendistato o a termine e più precisamente: (i) nel caso di prosecuzione di un contratto di apprendistato in contratto a tempo indeterminato a partire dall’1 gennaio 2018, indipendentemente dall’età anagrafica del lavoratore alla data della prosecuzione; (ii) nel caso di conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato a partire al 1° gennaio 2018, fermo restando il possesso dei suddetti requisiti anagrafici alla data di conversione.

Lo sgravio dei contributi INPS sale al 100% (sempre con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL e fino al limite di € 3.000,00 all’anno), in caso di assunzione entro 6 mesi dall’acquisizione del titolo di studio di studenti che con il datore di lavoro hanno svolto periodi di alternanza scuola – lavoro per almeno il 30% del monte ore previsto per tale attività ovvero hanno svolto con il datore di lavoro percorsi di apprendistato per la qualifica o il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore, il certificato di specializzazione tecnica superiore o periodi di apprendistato in alta formazione.

Nella Legge di Bilancio 2018 viene precisato che tali sgravi si applicano a tutti i datori di lavoro che a partire dall’1 gennaio 2018 effettueranno assunzioni con contratto di lavoro a tutele crescenti di giovani che non hanno compiuto i 30 anni di età e non risultano essere stati occupati a tempo indeterminato con lo stesso o con altri datori di lavoro. Limitatamente alle assunzioni che verranno effettuate nel corso dell’anno 2018 gli incentivi in esame saranno riconosciuti anche in caso di assunzione di persone che non hanno compiuto 35 anni d’età.

Nel caso in cui il lavoratore, per la cui assunzione a tempo indeterminato sia stato già parzialmente fruito l’esonero, venga nuovamente assunto da altri datori di lavoro, il beneficio dello sgravio contributivo sarà riconosciuto per il periodo residuo utile alla piena fruizione, e cioè la restante parte dei 36 mesi di durata complessiva, indipendentemente dall’età anagrafica del giovane lavoratore alla data in cui avverrà la nuova assunzione.

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10. Indicazioni operative sulle videocamere e fotocamere nei luoghi di lavoro

Indicazioni operative sulle videocamere e fotocamere nei luoghi di lavoro

Sono numerose le imprese che intendono procedere all’installazione di impianti di allarme o antifurto dotati anche di videocamere o fotocamere che si attivano, automaticamente, in caso di intrusione da parte di terzi all’interno dei luoghi di lavoro.

L’installazione di tali impianti, finalizzati alla tutela del patrimonio aziendale, prevedendo comunque la presenza di videocamere o fotocamere, rappresenta una fattispecie rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 4 della legge n. 300/1970 (“Statuto dei Lavoratori”) ed è soggetta quindi alla preventiva procedura di accordo con la RSU (Rappresentanza Sindacale Unitaria) o le RSA (Rappresentanze Sindacali Aziendali) ovvero all’autorizzazione da parte dell’Ispettorato del Lavoro.

Infatti Il primo comma del citato art. 4 prevede che: “Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione della sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi.”.

Con la Nota n. 299 del 28 novembre 2017 l’Ispettorato del Lavoro ha ritenuto opportuno fornire ai propri Uffici Territoriali indicazioni operative finalizzate, da un lato, a uniformarne l’operatività e, dall’altro, a rendere più celeri le procedure autorizzative connesse a tali particolari impianti.

In particolare nella Nota 28 novembre 2017 n. 299 dell’Ispettorato del Lavoro si legge che:

  • gli impianti di allarme e antifurto dotati anche di videocamere e fotocamere, essendo evidentemente finalizzati alla tutela del patrimonio aziendale, trovano la loro legittimazione nel primo comma dell’art. 4 sopra riportato;
  • qualora le videocamere o fotocamere si attivino esclusivamente con l’impianto di allarme inserito, non sussiste alcuna possibilità di controllo “preterintenzionale” sul personale, per cui non vi sono motivi ostativi al rilascio del provvedimento;
  • conseguentemente, in relazione all’evidente esigenza di celerità nell’attivazione dei predetti impianti, il provvedimento autorizzativo va rilasciato in tempi assolutamente rapidi in quanto non occorre una valutazione istruttoria.

In buona sostanza, con riferimento alle videocamere o fotocamere che si attivano automaticamente con l’impianto di allarme inserito ed in caso di intrusione da parte di terzi all’interno dei luoghi di lavoro, l’Ispettorato del Lavoro giustifica senz’altro i provvedimenti autorizzatori di installazione e utilizzazione di tali strumenti, invitando i propri Uffici Territoriali al relativo rilascio alle imprese richiedenti in tempi stretti e senza istruttoria.

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9. I diritti d’autore nel rapporto di lavoro subordinato

Può accadere che un lavoratore dipendente, durante l’esecuzione del rapporto di lavoro subordinato o al di fuori dell’orario e del luogo di lavoro, realizzi un’opera, un’invenzione, ovvero crei qualcosa di nuovo (ad esempio, un oggetto, un processo produttivo o un software), che sia suscettibile di essere utilizzato o di avere un’applicazione industriale.

Il Codice della proprietà industriale disciplina i diritti d’autore nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, prevedendo espressamente che i diritti di cui è titolare il lavoratore – al quale spetta sempre il diritto morale di essere riconosciuto autore dell’invenzione e cioè il diritto alla paternità dell’opera – cambiano a seconda del contesto in cui l’invenzione è realizzata; più precisamente si parla di:

  • Invenzioni di servizio, nel caso in cui il dipendente viene assunto proprio per svolgere attività creativa e/o di ricerca e viene retribuito proprio a tal fine. Nell’ipotesi di invenzioni in adempimento di un contratto di lavoro, i diritti patrimoniali che ne discendono appartengono automaticamente al datore di lavoro.
  • Invenzioni di azienda, nel caso in cui il dipendente non è assunto proprio al fine di inventare, creare, ricercare o studiare, ma accade che nell’esecuzione delle proprie mansioni realizzi qualcosa di nuovo. In tali ipotesi i diritti derivanti dall’invenzione appartengono al datore di lavoro, ma il lavoratore ha diritto a un equo premio, cioè un compenso apposito, che viene determinato sulla base di molti fattori, tra cui: le mansioni svolte, la retribuzione, l’importanza dell’invenzione, ma anche l’apporto che l’organizzazione del datore di lavoro ha fornito al lavoratore autore dell’invenzione.
  • Invenzioni occasionali, nel caso in cui il dipendente ponga in essere, fuori dall’orario di lavoro, un’invenzione che riguardi il campo di attività del datore di lavoro. In tale ipotesi è il lavoratore a essere titolare dei diritti patrimoniali e di brevetto. Se però il lavoratore non vuole sfruttare personalmente l’invenzione o l’opera, il datore di lavoro ha un diritto di opzione sull’uso di tale invenzione o di tale opera. Anche in questo caso spetta al dipendente una somma di denaro, fermo restando il diritto alla paternità dell’opera come nelle altre due ipotesi sopra descritte.

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8. Abuso della connessione internet del PC aziendale

Abuso della connessione internet del PC aziendale

Con la sentenza n. 14862 del 2017 la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla legittimità del licenziamento di un lavoratore per abuso della connessione internet del PC aziendale.

In particolare con la suddetta sentenza la Suprema Corte ha respinto il ricorso di un impiegato, ritenendo legittima l’adozione di un provvedimento espulsivo nei confronti del dipendente, che aveva utilizzato in modo eccessivo, intenzionale e reiterato nel tempo la connessione internet aziendale per scopi personali.

Di tale sentenza appaiono particolarmente interessanti le considerazioni della Corte di Cassazione su alcuni motivi del ricorso del lavoratore; e più precisamente:

  • Il fatto che il ricorrente non fosse stato posto nelle condizioni di conoscere tempestivamente le disposizioni sull’utilizzo degli apparati, contenute nel regolamento aziendale 1 luglio 2011, è stato ritenuto dalla Suprema Corte come non attinente al requisito di specificità che deve possedere la contestazione disciplinare, operando sul diverso piano dell’ascrizione di una condotta di cui si assume che non potesse essere nota al lavoratore la illiceità. In altri termini, la condotta accertata, riassunta dai Giudici del merito in “un ampio e indebito utilizzo dello strumento aziendale per finalità estranee all’attività lavorativa”, è stata ritenuta dalla Cassazione contraria alle “elementari regole del vivere comune” e al contenuto precettivo tanto dell’art. 2104 del codice civile, come dell’art. 100 CCNL di settore, entrambi esplicitamente richiamati nella lettera di contestazione ricevuta dal lavoratore.
  • L’onere di pubblicità del cosiddetto codice disciplinare, previsto dalla legge n. 300 del 1970, art. 7, comma 1, si applica al licenziamento disciplinare soltanto nei limiti in cui questo sia stato intimato per una delle specifiche ipotesi di comportamento illecito vietate e sanzionate con il provvedimento espulsivo da norme della contrattazione collettiva o da quelle validamente poste dal datore di lavoro entrambe soggette all’obbligo della pubblicità per l’esigenza di tutelare il lavoratore contro il rischio di incorrere nel licenziamento per fatti da lui non preventivamente conosciuti come mancanze. Tuttavia tale onere di pubblicità non si applica quando, senza avvalersi di una delle suddette specifiche ipotesi, il datore di lavoro contesti un comportamento che, secondo quanto accertato in fatto dal Giudice del merito, integri una violazione di una norma penale, o sia manifestamente contrario all’etica comune, ovvero concreti un grave o comunque notevole inadempimento dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà prescritti dagli artt. 2104 e 2105 del codice civile, poiché in tali casi il potere di licenziamento deriva direttamente dalla legge (art. 2119 del codice civile e legge n. 604 del 1966, artt. 1 e 3).
  • È controllo a distanza ai sensi della legge n. 300 del 1970, art. 4, l’attività che abbia ad oggetto la prestazione lavorativa e il suo esatto adempimento. Resta invece esclusa dal campo di applicazione della predetta norma quell’attività del datore di lavoro che sia volta a individuare la realizzazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, idonei a ledere il patrimonio aziendale sotto il profilo della sua integrità e del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti.

Pertanto, nel presupposto dell’ininfluenza della mancata consegna del regolamento aziendale e della essenziale rilevanza, al contrario, di un ampio e indebito utilizzo dello strumento, in contrasto con le regole elementari del vivere comune, la Suprema Corte ha confermato la sentenza della Corte d’Appello che aveva proceduto ad un’articolata ricognizione della fattispecie, prendendo in esame l’insieme complessivo delle circostanze del caso concreto, anche di natura soggettiva, ponendo in rilievo come ci si trovava di fronte “ad un utilizzo della dotazione aziendale per fini personali non sporadica e/o eccezionale, bensì sistematica in considerazione della frequenza (complessivamente 27 connessioni), della durata dell’accesso (complessivamente 45 ore) e dello scambio di dati di traffico (migliaia di kbyte)”.

Sulla base di tali elementi, oltre che della loro correlazione al “ruolo” di responsabilità che l’impiegato ricopriva in azienda (“di controllore della qualità dei sinistri sul territorio nazionale“), la Corte di Cassazione è dunque pervenuta a ritenere legittima l’adozione di un provvedimento espulsivo del dipendente.

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7. Licenziabile chi svolge attività extra-lavorativa in malattia se mette a rischio la guarigione

Licenziabile chi svolge attività extra-lavorativa in malattia se mette a rischio la guarigione

Con la sentenza n. 19089 dell’1 agosto 2017 la Corte di Cassazione Sezione Lavoro è tornata a pronunciarsi sulla legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente in caso di attività extra-lavorativa durante il periodo di assenza per infortunio.

Nel caso deciso dalla Suprema Corte con la pronuncia in esame, il lavoratore ha adito il Tribunale di Roma per chiedere che tale licenziamento fosse dichiarato illegittimo con tutte le relative conseguenze, ma il Giudice del Lavoro di primo grado ha respinto la domanda del dipendente, il quale ha proposto ricorso in appello avanti la Corte di Appello di Roma, che ha evidenziato come la prova della giusta causa del recesso datoriale fosse emersa dall’attività istruttoria espletata dal giudice di primo grado ed ha quindi confermato la decisione del Tribunale di Roma. Avverso la sentenza del Giudice di secondo grado il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, cui ha resistito l’azienda.

Con la pronuncia in esame la Suprema Corte ha respinto tale ricorso, precisando che:

  • costituisce illecito disciplinare l’espletamento di attività extra-lavorativa da parte del dipendente durante il periodo di assenza per malattia, non solo se da tale comportamento derivi un’effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa sia solo messa in pericolo dalla condotta imprudente del lavoratore stesso;
  • in tema di lavoro subordinato, le disposizioni dell’art. 5 dello Stato dei Lavoratori (che stabiliscono il divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla facoltà dello stesso datore di lavoro di effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti) non precludono al datore medesimo di procedere ad accertamenti su circostanze di fatto volte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa e/o lo svolgimento da parte del lavoratore di un’attività extra-lavorativa, che ne pregiudichi la guarigione o la relativa tempestività. 

 

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6. I limiti alla facoltà di recesso durante il periodo di prova

Il codice civile disciplina l’assunzione del lavoratore in prova nell’art. 2096 c.c., il quale prevede che:

  • l’assunzione del lavoratore con periodo di prova deve innanzitutto risultare da atto scritto;
  • il datore di lavoro e il dipendente sono rispettivamente tenuti a consentire e fare espletare la prova;
  • durante il periodo di prova, senza alcun obbligo di preavviso o d’indennità ciascuna delle parti può recedere dal contratto, salvo che la prova non sia stabilita per un tempo minimo necessario. In tal caso, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine minimo stabilito dalle parti;
  • compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato dal lavoratore si computa nella sua anzianità.

In buona sostanza, secondo la suddetta disposizione del codice civile, durante il periodo di prova, entrambe le parti di un rapporto di lavoro sono libere di recedere da tale rapporto, senza obbligo di motivazione e senza obbligo di dare il preavviso e/o di pagare la relativa indennità sostitutiva.

Tuttavia, secondo la giurisprudenza, le parti non possono interrompere la prova prima che sia trascorso un periodo tale da consentire l’effettività della prova stessa.

In particolare, per quanto riguarda il datore di lavoro, la discrezionalità di licenziare un dipendente durante il periodo di prova incontra dei limiti elaborati dalla giurisprudenza, la quale ha ritenuto illegittimo il recesso durante il periodo di prova, qualora la stessa prova non sia stata effettivamente consentita.

Tale situazione si verifica nel caso in cui:

  • al lavoratore non siano state effettivamente attribuite le mansioni indicate nel contratto;
  • la verifica sia stata condotta su mansioni diverse da quelle di assunzione, sia esse inferiori o superiori;
  • il periodo di verifica sia stato inadeguato a permettere un’idonea valutazione delle capacità del lavoratore.

Inoltre, per quanto riguarda le conseguenze di un illegittimo recesso in prova da parte del datore di lavoro, in giurisprudenza sussistono due distinti orientamenti e più precisamente:

  • in base ad un primo orientamento, l’illegittimità del recesso in prova implica che al lavoratore sia riconosciuto il diritto di terminare la prova e di ottenere il pagamento della retribuzione per il periodo residuo;
  • in base ad un secondo orientamento, invece, l’illegittimità del recesso in prova implica che al lavoratore sia riconosciuto (solo) il risarcimento dei danni per responsabilità contrattuale del datore di lavoro, non essendo applicabile al lavoratore in prova il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Per evitare tali criticità, ripetutamente evidenziate dalla giurisprudenza, occorre quindi prestare attenzione a:

  • indicare nel patto di prova le mansioni oggetto di verifica;
  • effettuare la prova stessa su tali mansioni;
  • concordare – ad eventuale tutela di entrambe le parti – una durata minima del patto di prova.

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