Abuso della connessione internet del PC aziendale

Con la sentenza n. 14862 del 2017 la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla legittimità del licenziamento di un lavoratore per abuso della connessione internet del PC aziendale.

In particolare con la suddetta sentenza la Suprema Corte ha respinto il ricorso di un impiegato, ritenendo legittima l’adozione di un provvedimento espulsivo nei confronti del dipendente, che aveva utilizzato in modo eccessivo, intenzionale e reiterato nel tempo la connessione internet aziendale per scopi personali.

Di tale sentenza appaiono particolarmente interessanti le considerazioni della Corte di Cassazione su alcuni motivi del ricorso del lavoratore; e più precisamente:

  • Il fatto che il ricorrente non fosse stato posto nelle condizioni di conoscere tempestivamente le disposizioni sull’utilizzo degli apparati, contenute nel regolamento aziendale 1 luglio 2011, è stato ritenuto dalla Suprema Corte come non attinente al requisito di specificità che deve possedere la contestazione disciplinare, operando sul diverso piano dell’ascrizione di una condotta di cui si assume che non potesse essere nota al lavoratore la illiceità. In altri termini, la condotta accertata, riassunta dai Giudici del merito in “un ampio e indebito utilizzo dello strumento aziendale per finalità estranee all’attività lavorativa”, è stata ritenuta dalla Cassazione contraria alle “elementari regole del vivere comune” e al contenuto precettivo tanto dell’art. 2104 del codice civile, come dell’art. 100 CCNL di settore, entrambi esplicitamente richiamati nella lettera di contestazione ricevuta dal lavoratore.
  • L’onere di pubblicità del cosiddetto codice disciplinare, previsto dalla legge n. 300 del 1970, art. 7, comma 1, si applica al licenziamento disciplinare soltanto nei limiti in cui questo sia stato intimato per una delle specifiche ipotesi di comportamento illecito vietate e sanzionate con il provvedimento espulsivo da norme della contrattazione collettiva o da quelle validamente poste dal datore di lavoro entrambe soggette all’obbligo della pubblicità per l’esigenza di tutelare il lavoratore contro il rischio di incorrere nel licenziamento per fatti da lui non preventivamente conosciuti come mancanze. Tuttavia tale onere di pubblicità non si applica quando, senza avvalersi di una delle suddette specifiche ipotesi, il datore di lavoro contesti un comportamento che, secondo quanto accertato in fatto dal Giudice del merito, integri una violazione di una norma penale, o sia manifestamente contrario all’etica comune, ovvero concreti un grave o comunque notevole inadempimento dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà prescritti dagli artt. 2104 e 2105 del codice civile, poiché in tali casi il potere di licenziamento deriva direttamente dalla legge (art. 2119 del codice civile e legge n. 604 del 1966, artt. 1 e 3).
  • È controllo a distanza ai sensi della legge n. 300 del 1970, art. 4, l’attività che abbia ad oggetto la prestazione lavorativa e il suo esatto adempimento. Resta invece esclusa dal campo di applicazione della predetta norma quell’attività del datore di lavoro che sia volta a individuare la realizzazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, idonei a ledere il patrimonio aziendale sotto il profilo della sua integrità e del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti.

Pertanto, nel presupposto dell’ininfluenza della mancata consegna del regolamento aziendale e della essenziale rilevanza, al contrario, di un ampio e indebito utilizzo dello strumento, in contrasto con le regole elementari del vivere comune, la Suprema Corte ha confermato la sentenza della Corte d’Appello che aveva proceduto ad un’articolata ricognizione della fattispecie, prendendo in esame l’insieme complessivo delle circostanze del caso concreto, anche di natura soggettiva, ponendo in rilievo come ci si trovava di fronte “ad un utilizzo della dotazione aziendale per fini personali non sporadica e/o eccezionale, bensì sistematica in considerazione della frequenza (complessivamente 27 connessioni), della durata dell’accesso (complessivamente 45 ore) e dello scambio di dati di traffico (migliaia di kbyte)”.

Sulla base di tali elementi, oltre che della loro correlazione al “ruolo” di responsabilità che l’impiegato ricopriva in azienda (“di controllore della qualità dei sinistri sul territorio nazionale“), la Corte di Cassazione è dunque pervenuta a ritenere legittima l’adozione di un provvedimento espulsivo del dipendente.

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