Autore: FTA Pagina 18 di 26

8. I responsabili italiani dello stop al geoblocking nell’e-commerce

I responsabili italiani dello stop al geoblocking nell’e-commerce

Con la legge n. 37 del 3 maggio 2019 (c.d. “legge europea 2018”) l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) è stata designata come organismo responsabile dell’applicazione in Italia del regolamento europeo sul geoblocking, ossia il Regolamento UE 2018/302, che è in vigore in tutta Europa dal 3 dicembre 2018 ed è finalizzato ad impedire nell’e-commerce i blocchi geografici ed altre forme di discriminazione basate sulla nazionalità, sul luogo di residenza o sul luogo di stabilimento dei clienti.

In particolare, la c.d. legge europea 2018 ha introdotto nell’art. 144-bis del Codice del consumo due nuovi commi: il comma 9-bis ed il comma 9-ter.

Il comma 9-bis dell’art. 144-bis del Codice del consumo stabilisce che, in caso di accertamento di violazione del regolamento europeo sul geoblocking da parte di un professionista esercente attività di commercio elettronico, AGCM potrà adottare nei confronti di tale soggetto le stesse sanzioni previste per le pratiche commerciali scorrette, come ad esempio una sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 10.000,00 ad Euro 5.000.000,00.

Il comma 9-ter dell’art. 144-bis del Codice del consumo stabilisce invece che, in caso di controversia tra un consumatore e un professionista relativamente all’applicazione del regolamento europeo sul geoblocking, spetterà al Centro Nazionale della rete europea per i consumatori (ECC-NET) fornire assistenza ai consumatori.

Pertanto, essendo stati designati con la c.d. legge europea 2018 sia l’organismo responsabile dell’applicazione in Italia del regolamento europeo sul geoblocking (e cioè l’AGCM), sia l’organismo responsabile in Italia per l’assistenza ai consumatori nelle controversie in materia di geoblocking (e cioè il Centro Nazionale della rete europea per i consumatori), sarà interessante verificare quali saranno gli effetti pratici derivanti sullo sviluppo dell’e-commerce nel nostro Paese.

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7. Le informazioni generali obbligatorie per un sito e-commerce

Le informazioni generali obbligatorie per un sito e-commerce

Per legge un sito e-commerce deve obbligatoriamente contenere le seguenti informazioni generali:

  • nome, denominazione o ragione sociale del proprietario del sito e-commerce;
  • domicilio o sede legale del proprietario del sito e-commerce;
  • contatti del proprietario del sito e-commerce, incluso l’indirizzo di posta elettronica;
  • numero di iscrizione al REA o al registro delle imprese;
  • partita IVA;
  • indicazione dei prezzi in maniera chiara ed inequivocabile, con la specificazione se essi siano o meno comprensivi di tasse e costi di consegna.

Le informazioni generali obbligatorie devono essere facilmente accessibili da parte degli utenti.

La mancata indicazione su un sito e-commerce delle informazioni generali obbligatorie è punita con il pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria da € 103,00 a € 10.000, salvo che il fatto costituisca reato.

Occorre, quindi, prestare attenzione anche a tali aspetti per così dire formali di un sito di e-commerce.

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6. Dal 3 dicembre 2018 saranno vietati i blocchi geografici nell’e-commerce

Dal 3 dicembre 2018 saranno vietati i blocchi geografici nell’e-commerce

Dal 3 dicembre 2018 nell’Unione europea si applicherà il Regolamento UE 2018/302, che contiene misure volte ad impedire nel commercio elettronico i blocchi geografici ed altre forme di discriminazione basate sulla nazionalità, sul luogo di residenza o sul luogo di stabilimento dei clienti.

Il blocco geografico (c.d. “geoblocking”) consiste in una pratica discriminatoria finalizzata ad impedire ad un cliente di acquistare online prodotti o servizi da un sito web basato in un altro Paese UE.

Per meglio comprendere cosa sia un blocco geografico è utile fare un esempio: ad oggi un italiano che vuole acquistare un prodotto su un sito web tedesco, dopo aver scelto il prodotto, viene automaticamente reindirizzato alla pagina italiana del sito.

Dal 3 dicembre 2018 ciò non sarà più possibile in base al Regolamento UE 2018/302, posto che ai sensi dell’art. 3 di tale regolamento un professionista non potrà bloccare o limitare l’accesso di un cliente alla sua “interfaccia online” (e cioè al suo sito web e/o alla sua app) per motivi legati alla nazionalità, al luogo di residenza o al luogo di stabilimento del cliente.

Il Regolamento UE 2018/302 non si applicherà alle “situazioni puramente interne”, in cui tutti gli elementi rilevanti della vendita (e cioè la sede del venditore, il luogo di residenza dell’acquirente ed il luogo di consegna) siano limitati ad un solo Stato membro.

In altri termini, il regolamento in esame si applicherà solo nei casi in cui la vendita online avvenga tra soggetti di due paesi UE diversi o la consegna della merce avvenga in uno Stato membro diverso da quello del venditore e/o dell’acquirente.

Al fine di rimuovere gli ostacoli alla diffusione del commercio elettronico all’interno dell’Unione europea, il Regolamento UE 2018/302 vieta espressamente al venditore di:

  • bloccare o limitare l’accesso di un cliente al suo sito web e/o alla sua app per motivi legati alla nazionalità o al luogo di residenza del cliente;
  • reindirizzare un cliente ad una versione del suo sito web e/o della sua app diversa da quella cui il cliente desiderava accedere inizialmente per via della lingua usata o di altre caratteristiche che la rendono specificamente destinata ai clienti con una particolare nazionalità;
  • applicare diverse condizioni di vendita (compresi i prezzi di vendita netti) per motivi legati alla nazionalità o al luogo di residenza del cliente;
  • applicare diverse condizioni di pagamento (compresi i metodi di pagamento) per motivi legati alla nazionalità o al luogo di residenza del cliente.

In linea generale, il nuovo regolamento prevarrà in caso di conflitto con il diritto della concorrenza. Tuttavia, non sarà pregiudicato il diritto dei fornitori di imporre restrizioni alle vendite attive (e cioè alle vendite online sollecitate tramite attività di marketing digitale, banner, ecc.).

Infine il Regolamento UE 2018/302 contiene una clausola di revisione, in base alla quale la Commissione europea procederà a una prima valutazione dell’impatto delle nuove norme sul mercato interno dopo due anni dalla loro entrata in vigore: tale valutazione comprenderà un’eventuale applicazione delle nuove norme a determinati servizi prestati per via elettronica che offrono contenuti protetti dal diritto d’autore, quali musica scaricabile, libri elettronici, software e giochi online.

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5. Il divieto di vendere i prodotti su Amazon è legittimo in un contratto di distribuzione selettiva

Il divieto di vendere i prodotti su Amazon è legittimo in un contratto di distribuzione selettiva

Con la sentenza 6 dicembre 2017, C-230/16, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha dichiarato legittimo il divieto di vendere i prodotti su Amazon, che era stato inserito in un contratto di distribuzione selettiva da parte di una società di prodotti cosmetici di lusso.

La vicenda da cui ha tratto origine la sentenza in commento va inquadrata nell’ambito della distribuzione selettiva, che è un sistema di distribuzione nel quale il produttore s’impegna a vendere i beni oggetto del contratto solo a un numero ristretto di distributori al dettaglio, i quali vengono appositamente selezionati sulla base di determinati criteri che il produttore reputa necessari per una vendita ottimale dei propri prodotti.

Per meglio comprendere l’importanza della sentenza in esame è utile ricostruire brevemente i fatti di causa.

La Coty Germany vende prodotti cosmetici di lusso in Germania, commercializzando alcune marche di tale settore attraverso una rete di distribuzione selettiva.

La Parfümerie Akzente distribuiva da molti anni, quale distributore autorizzato, i prodotti della Coty Germany in punti vendita fisici e via internet. In particolare la vendita su internet di tali prodotti da parte di Parfümerie Akzente avveniva sia mediante un proprio negozio online, sia mediante Amazon.

Il contratto di distribuzione selettiva in essere tra Coty Germany e i suoi distributori autorizzati prevedeva che:

  • ogni punto vendita del distributore deve essere autorizzato dalla Coty Germany, presupponendo il rispetto di un certo numero di requisiti relativi alle dotazioni ed agli arredamenti del singolo punto vendita, al fine di valorizzare e sottolineare la connotazione lussuosa dei prodotti Coty;
  • il distributore è autorizzato a vendere i prodotti Coty su internet, ma a condizione che l’attività di vendita online sia realizzata tramite una “vetrina elettronica” del negozio autorizzato e che venga in tal modo preservata la connotazione lussuosa di tali prodotti;
  • al distributore autorizzato è vietato vendere i prodotti Coty attraverso portali internet di terzi, come ad esempio Amazon.

La Coty Germany proponeva un ricorso dinanzi al giudice tedesco di primo grado affinché quest’ultimo vietasse a Parfümerie Akzente di vendere i prodotti Coty mediante Amazon.

Il giudice di primo grado respingeva il ricorso e Coty Germany proponeva appello dinanzi alla Corte d’Appello di Francoforte.

La Corte d’Appello di Francoforte, chiamata a decidere sulla legittimità del divieto imposto da Coty Germany ai suoi distributori autorizzati di vendere i prodotti Coty su Amazon, sospendeva il procedimento e sottoponeva la vicenda alla Corte di giustizia dell’Unione europea.

La Corte di giustizia ha affermato che non è in contrasto con la normativa europea sugli accordi anticoncorrenziali (v. in particolare art. 101, paragrafo 1, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea) una clausola contrattuale che vieta ai distributori autorizzati di un sistema di distribuzione selettiva di prodotti di lusso di servirsi in maniera riconoscibile di piattaforme terze per la vendita a mezzo internet di tali prodotti, qualora tale clausola sia diretta a salvaguardare l’immagine di lusso dei prodotti oggetto del contratto, sia stabilita indistintamente e applicata in modo non discriminatorio, nonché sia proporzionata rispetto all’obiettivo perseguito.

In altri termini, con la sentenza in questione la Corte di giustizia ha stabilito che non è in contrasto con la normativa europea antitrust inserire in un contratto di distribuzione selettiva un’apposita clausola che vieta ai distributori autorizzati di vendere i prodotti su Amazon e sugli altri marketplace, a condizione che tale clausola contrattuale:

  • sia finalizzata a tutelare l’immagine di lusso dei prodotti;
  • sia presente in tutti i contratti con i singoli membri del sistema di distribuzione selettiva;
  • sia applicata in modo non discriminatorio nei confronti di tutti i membri di tale sistema;
  • sia proporzionata al raggiungimento dell’obiettivo perseguito, ossia preservare l’immagine di lusso dei prodotti.

In buona sostanza, secondo la Corte di giustizia, in presenza di tutte le condizioni sopra indicate, la suddetta clausola non costituisce né una restrizione della clientela dei distributori autorizzati, né una restrizione delle vendite passive dei distributori autorizzati agli utenti finali, in quanto la circostanza che i prodotti di lusso non siano venduti tramite piattaforme di terzi (Amazon E-bay, ecc.) serve a salvaguardare l’immagine di lusso di tali prodotti e a consentire ai consumatori di distinguerli da prodotti simili ma non di lusso, posto che, come noto, sulle suddette piattaforme vengono venduti prodotti di ogni genere.

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4. Le condizioni generali di vendita di un sito e-commerce

Le condizioni generali di vendita di un sito e-commerce

Dai dati di una ricerca svolta nel 2016 dall’Osservatorio E-commerce B2C del Politecnico di Milano emerge che anche in Italia il commercio elettronico è in continua e rapida crescita tra i consumatori italiani.

Inoltre, secondo alcuni studi, a seguito dell’ulteriore diffusione delle nuove tecnologie l’e-commerce è destinato ad acquisire anche in Italia sempre più rilevanza come canale di vendita al dettaglio parallelo a quelli tradizionali.

Tuttavia ad oggi in Italia non sono ancora molte le aziende, che utilizzano in maniera adeguata il canale di vendita in questione.

Di solito una delle prima scelte che devono affrontare le aziende che intendono vendere i propri prodotti on line è quella di decidere se affidarsi a portali di terzi specializzati in e-commerce (ad esempio Amazon, Ebay, Zalando, ecc.) oppure vendere direttamente i loro prodotti tramite il loro sito internet aziendale.

Tralasciando in questa sede i pro e i contro della prima o della seconda soluzione sopra indicata, qui di seguito forniremo alcuni elementi essenziali da un punto di vista legale che le aziende devono tenere in considerazione quando decidono di vendere i loro prodotti direttamente tramite il loro sito internet.

In particolare occorre prestare molta attenzione alla redazione delle condizioni generali di vendita, tenendo conto che la vendita on line presenta alcune specificità, che la rendono più delicata e complessa rispetto alla vendita tradizionale all’interno di un negozio fisico, considerando che si tratta di una materia disciplinata da una serie di norme nazionali e anche internazionali, in virtù del fatto che potenzialmente i prodotti messi in vendita su internet sono destinati ad essere venduti anche a consumatori residenti in paesi diversi da quello dell’azienda venditrice e, quindi, sia in paesi UE, sia in paesi extra UE.

Pertanto nella redazione delle condizioni generali di vendita di un sito e-commerce, che a pena di inefficacia devono essere chiaramente visibili agli utenti del sito stesso, è necessario prestare molta attenzione alle clausole riguardanti i seguenti aspetti:

  • luogo di conclusione del contratto di vendita;
  • momento di trasferimento della proprietà della merce;
  • spedizione e consegna della merce;
  • recesso;
  • restituzione della merce;
  • legge applicabile;
  • foro competente;
  • trattamento dei dati personali.

In conclusione, quando un’azienda decide di vendere direttamente i suoi prodotti on line, è preferibile far redigere le condizioni generali di vendita del sito di e-commerce da esperti della materia (e non copiare pedissequamente le condizioni generali di vendita di siti analoghi, reperendole sul web o facendosele dare da coloro che realizzano i siti internet), al fine di evitare il rischio non solo di contenziosi con i consumatori anche a livello internazionale, ma anche quello di conflitti con i tradizionali canali di vendita off line utilizzati in parallelo dall’azienda.

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3. Distribuzione selettiva e violazione del divieto di vendere su Amazon

Distribuzione selettiva e violazione del divieto di vendere su Amazon

Con la sentenza 21 dicembre 2016, C-618/15, la Corte di giustizia dell’Unione europea si è pronunciata sul tema della competenza giurisdizionale a decidere una causa promossa da un commerciante di un paese UE facente parte di una rete di distribuzione selettiva, al fine di ottenere il risarcimento dei danni a lui derivati dalla violazione, da parte di commercianti appartenenti a tale rete ed esercenti la loro attività in altri Stati UE, del divieto di vendere i prodotti su vari siti internet di Amazon in diversi paesi europei.

Per meglio comprendere la sentenza in commento è utile innanzitutto fornire alcune informazioni sul contratto di distribuzione selettiva e poi ricostruire brevemente la vicenda da cui ha tratto origine tale sentenza.

Il contratto di distribuzione selettiva è il contratto con cui un produttore instaura un rapporto preferenziale con alcuni negozi al dettaglio, che vengono selezionati in base a determinati requisiti che il produttore ritiene fondamentali per una vendita ottimale dei propri prodotti.

Tale contratto è molto diffuso nella vendita al dettaglio di prodotti hi tech e di prodotti di lusso.

Una delle caratteristiche tipiche di un contratto di distribuzione selettiva consiste nel divieto, imposto al commerciante, di vendere i prodotti a commercianti estranei alla rete di distribuzione selettiva.

Con la diffusione di internet, sempre più spesso nei contratti in questione i produttori impongono ai loro distributori anche il divieto di vendere i prodotti tramite piattaforme di terzi (ad esempio Amazon, E-Bay, ecc.).

Ciò premesso, passiamo ora a ricostruire brevemente la vicenda da cui ha tratto origine la sentenza in esame della Corte di giustizia dell’Unione europea.

La società Concurrence esercita un’attività di vendita al dettaglio di prodotti hi tech, mediante un negozio ubicato in Parigi ed il sito internet di vendita online denominato “concurrence.fr”.

In data 16 marzo 2012 Concurrence stipulava con Samsung un contratto di distribuzione selettiva relativamente ai prodotti di alta gamma del marchio Samsung, ossia la gamma Elite. In particolare tale contratto prevedeva il divieto della vendita su internet dei prodotti in questione.

Dopo la conclusione del suddetto contratto la Samsung contestava alla Concurrence la violazione del contratto di distribuzione selettiva per avere commercializzato i prodotti della gamma Elite sul suo sito internet.

La Concurrence, a sua volta, contestava alla Samsung la legittimità delle clausole di tale contratto affermando, in particolare, che esse non erano applicate in maniera uniforme a tutti i distributori europei, taluni dei quali commercializzavano i prodotti in questione su vari siti internet di Amazon, senza reazione da parte della Samsung.

Con lettera del 20 marzo 2012 la Samsung comunicava alla Concurrence la fine del loro rapporto commerciale con effetto a partire dal 30 giugno 2013.

Seguivano poi tra le parti due giudizi (uno davanti al Tribunale di Parigi e l’altro davanti alla Corte d’Appello di Parigi), in cui la Concurrence era soccombente, sicché quest’ultima adiva la Corte di Cassazione francese.

Nel ricorso proposto dinanzi alla Corte di Cassazione Concurrence rilevava che la sentenza della Corte d’Appello di Parigi aveva dichiarato erroneamente l’incompetenza del giudice francese in relazione ai siti internet di Amazon operanti al di fuori del territorio francese, poiché questi ultimi non riguardavano il pubblico francese. In particolare, secondo la Concurrence, la Corte d’Appello di Parigi avrebbe omesso illegittimamente di verificare se il sistema di vendita sui siti internet di Amazon consentisse di spedire i prodotti messi in vendita non solo nello Stato membro di origine del sito internet interessato, ma anche negli altri Stati membri, e segnatamente in Francia, il che avrebbe consentito di giustificare la competenza del giudice francese.

La Corte di Cassazione francese decideva di sospendere il procedimento e sottoponeva alla Corte di giustizia dell’Unione europea la seguente questione pregiudiziale: “Se l’articolo 5, punto 3, del regolamento n. 44/2001 debba essere interpretato nel senso che, in caso di asserita violazione di divieti di rivendita al di fuori di una rete di distribuzione selettiva e su un marketplace, mediante offerte di vendita online su vari siti gestiti in differenti Stati membri, il distributore autorizzato che ritiene di essere leso abbia la facoltà di proporre un’azione inibitoria della turbativa illecita che ne deriva dinanzi all’autorità giurisdizionale del territorio nel quale i contenuti messi online sono o sono stati accessibili, ovvero se debba sussistere un altro collegamento”.

In altri termini, la Corte di Giustizia francese chiedeva alla Corte di giustizia dell’Unione europea come si deve interpretare l’articolo 5, punto 3, del regolamento n. 44/2001 al fine di attribuire la competenza giurisdizionale conferita da tale disposizione a conoscere di un’azione risarcitoria promossa per violazione del divieto di vendita al di fuori di una rete di distribuzione selettiva risultante dall’offerta, su siti internet operanti in diversi Stati membri, di prodotti che costituiscono oggetto di tale rete.

La Corte di giustizia dell’Unione europea ha così risposto alla questione pregiudiziale che le è stata sottoposta: “l’articolo 5, punto 3, del regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio dev’essere interpretato, al fine di attribuire la competenza giurisdizionale conferita da tale disposizione a conoscere di un’azione risarcitoria promossa per violazione del divieto di vendita al di fuori di una rete di distribuzione selettiva risultante dall’offerta, su siti internet operanti in diversi Stati membri, di prodotti che costituiscono oggetto di detta rete, nel senso che si deve considerare come luogo in cui il danno si è prodotto il territorio dello Stato membro che protegge detto divieto di vendita mediante l’azione in questione, territorio nel quale l’attore asserisce di aver sofferto una riduzione delle proprie vendite.”.

In buona sostanza, con la sentenza in commento la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che, in situazioni analoghe a quelle oggetto del caso in questione, il giudice competente a decidere la controversia è quello dello Stato membro in cui il danno lamentato si concretizza, tenendo conto della riduzione del volume delle vendite subite dal negoziante e della conseguente perdita del suo profitto. Ai fini di tale valutazione si dovrà considerare anche che il sistema di vendita sui siti internet di Amazon consente di spedire i prodotti messi in vendita non solo nello Stato membro di origine del sito internet interessato, ma anche negli altri Stati membri.

In attesa dell’importante decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea sul caso Coty Germany GmbH (C-230/16), in cui la Corte dovrà pronunciarsi sulla legittimità o meno di inserire in un contratto di distribuzione selettiva il divieto per i distributori di vendere tramite Amazon, la sentenza qui commentata, seppure attenga ad una questione processuale, attesta che in materia di distribuzione commerciale è sempre più necessaria e urgente una specifica normativa europea sulle vendite attraverso Amazon e gli altri marketplace (E-bay, Zalando, ecc.).

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2. É possibile vietare la vendita su internet agli agenti o ai distributori

É possibile vietare la vendita su internet agli agenti o ai distributori?

A seguito della diffusione di internet, sempre più spesso gli agenti e i distributori sono interessati a vendere on-line, con la conseguenza che nella prassi si pone il problema se sia legittimo o meno vietare la vendita su internet agli agenti o ai distributori.

Per rispondere al quesito oggetto del presente articolo occorre fare preliminarmente alcune precisazioni:

  • di regola la normativa antitrust non si applica ai contratti di agenzia, ma si applica ai contratti di distribuzione;
  • secondo la normativa antitrust la vendita tramite un sito internet costituisce una vendita passiva;
  • secondo la normativa antitrust un produttore non può vietare le vendite passive.

Ne consegue che da un punto di vista strettamente giuridico:

  • è legittimo vietare all’agente la vendita su internet, in quanto ai contratti di agenzia non si applica la normativa antitrust, che impedisce al produttore di vietare le vendite passive, tra cui rientrano le vendite tramite un sito internet;
  • è illegittimo vietare al distributore la vendita su internet, in quanto ai contratti di distribuzione si applica la normativa antitrust, che impedisce al produttore di vietare le vendite passive, tra cui rientrano, come detto, le vendite tramite un sito internet.

Tuttavia, da un punto di vista più strettamente operativo, per salvaguardare la buona armonia all’interno della rete vendita del produttore, si suggerisce di disciplinare la vendita su internet all’interno del singolo contratto di agenzia o di distribuzione secondo i principi contenuti negli “Orientamenti sulle restrizioni verticali” della Commissione Europea.

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1. La competenza giurisdizionale del giudice italiano in materia di illeciti civili a mezzo internet

La competenza giurisdizionale del giudice italiano in materia di illeciti civili a mezzo internet

In caso di illeciti civili compiuti a mezzo internet, attraverso la distribuzione di prodotti senza la necessaria licenza proveniente dal titolare del marchio, sussiste al competenza giurisdizionale del giudice italiano, laddove i prodotti siano stati offerti in vendita in Italia.

Infatti, ai sensi dell’art. 7.2 del Regolamento UE n. 1215/2012, quando una persona è domiciliata in un altro stato membro, sussiste in materia di illeciti civili la competenza giurisdizionale del giudice italiano se quest’ultimo è l’autorità giurisdizionale del “luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire”.

Per giurisprudenza comunitaria e nazionale, il luogo in cui si è verificato l’evento dannoso è sia quello in cui si è verificata l’azione da cui è derivato il danno, sia quello in cui si è verificato il danno.

Pertanto in presenza di atti illeciti a mezzo internet (ad esempio l’utilizzazione non consentita di segni distintivi nell’ambito della distribuzione di prodotti sul territorio italiano) non è rilevante stabilire quale sia il luogo in cui sono stati caricati i contenuti del sito internet. Ciò che rileva ai fini della competenza dell’autorità giurisdizionale italiana è che tali prodotti siano stati offerti in vendita sul territorio italiano.

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8. Il caso NIKE e la condanna della Commissione europea

Il caso NIKE e la condanna della Commissione europea per restrizione delle vendite transfrontaliere di prodotti di merchandising

Con la decisione del 25 marzo 2019, pubblicata il 21 giugno 2019, la Commissione europea ha sanzionato l’azienda NIKE con un’ammenda di 12,5 milioni di Euro per aver impedito ai commercianti di vendere prodotti di merchandising sotto licenza in altri paesi dello Spazio economico europeo.

La restrizione interessava il merchandising di alcune delle squadre di calcio e delle federazioni più famose d’Europa, di cui NIKE detiene la licenza. I prodotti di merchandising sotto licenza sono di varia natura (tazze, borse, lenzuola, articoli di cancelleria e giocattoli, solo per citarne alcuni), ma sono tutti accomunati dal fatto che riportano uno o più loghi o immagini coperti da diritti di proprietà intellettuale (DPI), quali marchi commerciali o diritti d’autore.

Tramite un accordo di licenza, una parte (il licenziante) consente all’altra parte (il licenziatario) di sfruttare uno o più DPI di un determinato prodotto. In generale le licenze concesse dai licenzianti sono generalmente di natura non esclusiva, in modo da aumentare il numero di prodotti di merchandising sul mercato e la copertura territoriale.

Le calzature e l’abbigliamento sportivo, prodotti e venduti da NIKE, sono di solito contraddistinti dai marchi registrati dell’azienda, quali il nome o il logo (noto come “Swoosh”).

Su alcuni articoli, i cosiddetti “prodotti di merchandising sotto licenza”, figurano invece solo i simboli di una squadra di calcio o di una federazione e non i marchi commerciali di NIKE. In questi casi Nike agisce in qualità di licenziante dei DPI e concede licenze a terzi, autorizzandoli a produrre e distribuire tali prodotti.

Proprio in relazione a tale sua attività di licenziante per la produzione e la distribuzione di merchandising, NIKE è stata sanzionata dalla Commissione europea.

Nel giugno 2017 la Commissione europea ha infatti aperto un’indagine antitrust su alcune pratiche di concessione delle licenze e distribuzione di NIKE, per accertare se l’azienda stesse limitando illegalmente la vendita transfrontaliera e online, da parte dei commercianti, di prodotti sotto licenza all’interno del mercato unico dell’Unione europea.

Dall’indagine è emerso che gli accordi non esclusivi di licenza e distribuzione sottoscritti da NIKE configuravano una violazione delle norme dell’Unione in materia di concorrenza, in particolare dell’art. 101 del Trattato sul Finanziamento dell’Unione Europea, che vieta gli accordi tra imprese atti a impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato unico dell’Unione europea. Più precisamente, secondo la Commissione europea, NIKE:

  • ha imposto ai licenziatari una serie di misure dirette, che erano finalizzate limitare le vendite al di fuori del territorio loro assegnato, tra cui: (i) clausole che le vietavano esplicitamente, (ii) obblighi di reindirizzare gli ordini non provenienti dal territorio di competenza a NIKE stessa, (iii) clausole che prevedevano il doppio versamento dei diritti di licenza per le vendite al di fuori del territorio;
  • ha adottato misure indirette, che erano finalizzate a mettere in pratica le restrizioni di vendita, ad esempio: (i) minacciando i licenziatari di revocare le loro licenze se avessero venduto al di fuori del territorio di competenza, (ii) rifiutandosi di fornire gli ologrammi che contraddistinguono i prodotti ufficiali se sospettava che questi ultimi potessero essere venduti in altri territori dello Spazio economico europeo, (iii) conducendo ispezioni intese a verificare il rispetto delle restrizioni;
  • ha incaricato alcuni dei licenziatari principali di concedere a terzi sublicenze per l’uso dei vari DPI in ciascun territorio. Per consolidare la pratica lungo tutta la catena di distribuzione, NIKE ha imposto loro misure dirette e indirette, costringendoli a restare all’interno del loro territorio e ad applicare restrizioni nei confronti dei sub-licenziatari;
  • ha introdotto clausole che proibivano esplicitamente ai licenziatari di fornire prodotti di merchandising ai clienti, spesso rivenditori al dettaglio, se c’era la possibilità che questi li vendessero al di fuori del territorio di competenza. Oltre ad obbligare i licenziatari a trasferire i divieti ai propri contraenti, NIKE interveniva per fare in modo che i rivenditori al dettaglio (ad esempio negozi di abbigliamento, supermercati, ecc.) smettessero di acquistare prodotti da licenziatari di altri territori dello Spazio economico europeo.

A seguito di tale istruttoria, la Commissione europea ha concluso che la condotta illegale tenuta da NIKE per circa tredici anni (dall’1 luglio 2004 al 27 ottobre 2017) ha creato barriere all’interno del mercato unico e precluso ai licenziatari le vendite transfrontaliere in Europa, a scapito dei consumatori europei.

Oggetto delle pratiche illecite, seppur in diversa misura, erano i prodotti di merchandising sotto licenza di squadre del calibro di Barcellona, Manchester United, Juventus, Inter e Roma, nonché di federazioni nazionali come la federazione calcistica francese.

NIKE ha collaborato con la Commissione europea al di là dei propri obblighi giuridici, segnatamente condividendo informazioni che hanno permesso alla stessa Commissione di ampliare la portata dell’indagine fino ad includere il merchandising sportivo secondario di diverse squadre aggiuntive.

L’azienda, oltre a fornire prove con un notevole valore aggiunto, ha anche ammesso espressamente i fatti e riconosciuto le violazioni della normativa dell’UE in materia di concorrenza.

Alla luce di queste attenuanti la Commissione europea ha quindi concesso a Nike una riduzione del 40% dell’ammenda, che comunque è stata determinata in 12,5 milioni di Euro.

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7. Invalida l’indicazione del foro competente all’interno della fattura

Invalida l’indicazione del foro competente all’interno della fattura

Con la sentenza 8 marzo 2018, C-64/17, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha dichiarato invalida la clausola attributiva di competenza contenuta nelle condizioni generali di vendita menzionate nelle fatture emesse da una delle parti di un rapporto di distribuzione tra due società europee.

Per meglio comprendere l’importanza della sentenza in esame è utile ricostruire brevemente i fatti di causa, che traggono origine da un rapporto di distribuzione di fatto, e cioè non formalizzato per iscritto, tra la società belga Saey Home & Garden (produttore) e la società portoghese Lusavouga (distributore) avente ad oggetto la distribuzione esclusiva in Spagna di attrezzi e utensili per la cucina recanti il marchio “Barbecook”.

Con mail del 17 luglio 2014 la società produttrice belga informava il distributore portoghese della sua decisione di porre termine alla loro collaborazione commerciale.

In data 19 giugno 2015 il distributore portoghese conveniva in giudizio la società belga dinanzi al Tribunale portoghese di Aveiro al fine di ottenere la condanna di quest’ultima al pagamento di Euro 24.000,00.

La società belga si costituiva in giudizio dinanzi al Tribunale di Aveiro ed eccepiva l’incompetenza dei giudici portoghesi a decidere sulla controversia, rilevando che nelle condizioni generali di vendita menzionate sulle fatture emesse dalla stessa società belga alla società portoghese vi era una clausola in cui si precisava che le eventuali controversie sarebbero state decise dal Tribunale belga di Courtrai.

Il giudice di primo grado respingeva l’eccezione di incompetenza e Saey Home & Garden proponeva appello dinanzi alla Corte d’Appello di Oporto.

La Corte d’Appello di Oporto sospendeva il procedimento e chiedeva alla Corte di giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi sulle due seguenti questioni pregiudiziali:

  • decidere se sia o meno valida una clausola attributiva di competenza contenuta nelle condizioni generali di vendita menzionate nelle fatture emesse dal produttore;
  • determinare il foro competente attraverso la corretta qualificazione del rapporto contrattuale, stabilendo in particolare se era competente il giudice belga in base alla suddetta clausola attributiva di competenza, il giudice spagnolo essendo la Spagna il luogo di esecuzione del contratto oppure il giudice portoghese essendo in Portogallo la sede del distribuito.

Con la sentenza 8 marzo 2018 la Corte di giustizia dell’Unione europea ha così deciso:

  • l’art. 25, paragrafo 1, del Regolamento UE 1215/2012 deve essere interpretato nel senso che, con riserva delle verifiche che spetta al giudice del rinvio effettuare, una clausola attributiva di competenza stipulata in condizioni generali di vendita menzionate in fatture emesse da una delle parti contraenti non soddisfa i requisiti previsti dal suddetto art. 25;
  • l’articolo 7, punto 1, del Regolamento UE 1215/2012 deve essere interpretato nel senso che il giudice competente a conoscere di una domanda risarcitoria relativa alla risoluzione di un contratto di concessione di vendita, concluso fra due società stabilite e operanti in due Stati membri diversi, per la commercializzazione di prodotti sul mercato nazionale di un terzo Stato membro, in cui nessuna delle due suddette società dispone di succursali o di stabilimenti, è quello dello Stato membro in cui si trova il luogo della prestazione principale dei servizi, come si evince dalle disposizioni del contratto nonché, in assenza di disposizioni siffatte, dall’esecuzione effettiva del contratto stesso, e, in caso di impossibilità di determinarlo su tale base, quello del domicilio del prestatore.

In buona sostanza, riguardo alla prima questione pregiudiziale la Corte di giustizia dell’Unione europea ha ritenuto che una clausola derogatoria della competenza contenuta nelle condizioni generali di vendita riportate nelle fatture emesse da una delle parti non soddisfa i requisiti di cui all’art. 25 del Regolamento UE 1215/2012, in quanto tale clausola non risulta essere stata oggetto di pattuizione tra le parti, stante il suo inserimento nelle fatture, che sono documenti emessi unilateralmente da una delle parti e quindi non hanno natura contrattuale.

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