Autore: FTA Pagina 1 di 27

108. Obiettivi di vendita e clausola risolutiva espressa nel contratto di agenzia

Con sentenza n. 541 del 6 maggio 2025 il Tribunale di Bologna – Sezione Lavoro si è pronunciato sulla questione della validità di una clausola risolutiva espressa in un contratto di agenzia.

In particolare, il caso da cui trae origine la suddetta sentenza riguardava un agente di commercio che aveva contestato il recesso in tronco della preponente basato su una clausola risolutiva espressa presente nel contratto di agenza secondo cui «In relazione alla potenzialità di mercato, la Società considera come quota minima per la Vostra Zona una vendita media mensile per la linea Prodotti “Oil” a marchio pari a 5000 UVR/mese. Il mancato raggiungimento del livello di vendite così stabilito per la Linea Prodotti “OIL” autorizzerà la nostra Società a dichiarare la risoluzione di diritto del contratto».

Il Tribunale di Bologna, dopo aver ribadito che è lecito prevedere all’interno di un contratto di agenzia una clausola risolutiva espressa con esonero in tale ipotesi di ogni valutazione da parte del giudice circa la rilevanza dell’inadempimento, ha dichiarato la nullità della clausola risolutiva espressa per indeterminatezza, in quanto:

  • la clausola faceva riferimento a una “media mensile” senza specificare il periodo temporale di riferimento per il calcolo;
  • non era possibile colmare questa lacuna attraverso l’interpretazione analogica con altre clausole del contratto relative a istituti premiali.

In buona sostanza, la sentenza è particolarmente rilevante per i seguenti motivi:

  • ribadisce la possibilità di inserire clausole risolutive espresse nei contratti di agenzia;
  • sottolinea però la necessità che tali clausole siano determinate in tutti i loro elementi;
  • chiarisce che l’interpretazione analogica non può essere utilizzata per colmare lacune di contenuto di una clausola risolutiva espressa, che è una clausola che comporta conseguenze gravose per l’agente privando l’agente del diritto di ottenere il preavviso e l’indennità di fine rapporto.

 

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14. Concorrenza tra canali di vendita tradizionali e online

Con ordinanza n. 626 del 10 gennaio 2025 la Corte di Cassazione si è occupata del tema della concorrenza tra imprenditori che operano all’interno di punti vendita fisici e imprenditori che operano tramite e-commerce. 

In particolare, in tale provvedimento la Suprema Corte ha affermato che:

  • in tema di concorrenza sleale il presupposto dell’illecito concorrenziale è la comunanza di clientela, che è da intendersi non come identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti bensì come insieme dei consumatori che avvertono il medesimo bisogno di mercato e si rivolgono a tutti i prodotti, uguali o affini, idonei a soddisfare tale bisogno;
  • la modalità di commercializzazione del prodotto non è rilevante ai fini della configurabilità del rapporto di concorrenza tra due imprenditori, in quanto la clientela si deve considerare in modo unitario a prescindere dal canale distributivo utilizzato;
  • sussiste, quindi, un rapporto di concorrenza tra imprenditori che commercializzano gli stessi prodotti mediante canali distributivi diversi (nel caso di specie, punti vendita dislocati sul territorio e vendite online)

In buona sostanza, con l’ordinanza in esame la Corte di Cassazione ha stabilito i seguenti principi:

  • la clientela deve essere considerata in modo unitario, indipendentemente dal canale distributivo utilizzato;
  • sussiste rapporto di concorrenza tra imprese che commercializzano gli stessi prodotti attraverso canali distributivi differenti.

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89. I vizi del patto di non concorrenza post-contrattuale nel lavoro subordinato

Con ordinanza n. 9258 dell’8 aprile 2025 la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro è tornata a pronunciarsi sul tema dei vizi del patto di non concorrenza post-contrattuale in riferimento al corrispettivo dovuto dal datore di lavoro al dipendente durante il rapporto di lavoro.

La Suprema Corte ha ribadito che, al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza post-contrattuale in un rapporto di lavoro subordinato, il corrispettivo dovuto al dipendente per tale patto, essendo un elemento distinto dalla retribuzione, deve innanzitutto possedere i requisiti previsti dall’articolo 1364 Codice civile secondo cui l’oggetto di un contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile.

Inoltre, se il corrispettivo per il patto di non concorrenza post-contrattuale è determinato o determinabile, va verificato ai sensi dell’articolo 2125 codice civile che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno.

Nello specifico l’articolo 2125 codice civile stabilisce che il patto, con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione del contratto è nullo:

  • se non risulta da atto scritto;
  • se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro;
  • se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

La durata del vincolo non può essere:

  • superiore a cinque anni se si tratta di dirigenti;
  • superiore a tre anni negli altri casi;
  • se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nelle misure sopra indicate.

Infine, l’ordinanza in commento ha ribadito che la verifica sull’eventuale sproporzione economica del compenso pattuito per il patto di non concorrenza post-contrattuale va fatta in particolare con riferimento al sacrificio successivo alla cessazione del contratto richiesto al lavoratore dipendente e alla riduzione delle capacità di guadagno dello stesso lavoratore indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto al lavoratore rappresenti per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, pena la nullità dell’intero patto di concorrenza post-contrattuale.

 

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107. Cambio di proprietà o di gestione nell’agenzia

Con sentenza n. 471 dell’11 marzo 2025 la Corte d’Appello di Venezia si è pronunciata sulla legittimità del recesso in tronco da un contratto di agenzia in caso di cambiamento della proprietà o della gestione di una società di agenzia.

Nel caso di specie il cambiamento di gestione della società di agenzia è consistito nel trasferimento a Singapore del legale rappresentante di tale società e nell’affidamento a Tizio della gestione completa della stessa società.

Con tale provvedimento la Corte territoriale adita ha in proposito stabilito che:

  • è legittimo il recesso in tronco da un contratto di agenzia in applicazione della clausola risolutiva espressa in base alla quale la preponente può risolvere immediatamente il contratto qualora si fosse verificato “qualsiasi cambiamento significativo nella struttura legale o nella gestione dell’agente” nonché in caso di “qualsiasi cambiamento nella proprietà dell’agenzia”;
  • il breve lasso temporale intercorrente tra la conoscenza ufficiale da parte della preponente del mutamento dell’assetto gestionale e l’invio della comunicazione di risoluzione in tronco impedisce di ingenerare nella società agente qualsiasi affidamento circa la prosecuzione del rapporto di agenzia anche attraverso un tacito consenso rispetto al nuovo assetto gestionale della società di agenzia;
  • la circostanza del trasferimento a Singapore del legale rappresentante della società di agenzia è di assoluto rilievo ai fini del caso in questione soprattutto con riferimento alla verosimiglianza della delega a Tizio della completa gestione di fatto della società di agenzia.

 

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88. Illegittimità del licenziamento per modifica dell’addebito contestato

Con la sentenza n. 5100 del 4 marzo 2025 il Tribunale di Milano ha ribadito il principio secondo cui i fatti sui quali si fonda il provvedimento sanzionatorio devono coincidere con quelli oggetto dell’avvenuta contestazione.

Ai fine del rispetto delle garanzie previste dall’art. 7 della Legge n. 300 del 1970 il contraddittorio sul contenuto dell’addebito mosso al lavoratore può ritenersi violato con conseguente illegittimità della sanzione irrogata per causa diversa da quella enunciata nella contestazione quando il quadro di riferimento (del fatto addebitato, inteso con riferimento alle modalità dell’episodio e al complesso degli elementi di fatto connessi all’azione del dipendente) sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa.

Nel caso di specie con  la sentenza in commento il giudice adito, richiamato il suddetto principio, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore ricorrente, in quanto il fatto contestato, oltre a risultare di scarsa gravità all’esito dell’istruttoria e comunque tale da comportare una sanzione meramente conservativa, era stato modificato nella lettera di licenziamento nella quale, dopo aver ripreso quanto contenuto in quella di contestazione, era stato aggiunto un fatto nuovo e decisivo costituito dall’ulteriore addebito di un tentativo di furto di materiale aziendale.

 

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87. Licenziamento del lavoratore che durante l’orario di lavoro utilizza l’auto aziendale per motivi privati come da relazione investigativa

Con ordinanza n. 3607 del 12 febbraio 2025 la Cassazione Civile Sezione Lavoro si è pronunciata sulla legittimità del licenziamento del lavoratore che, per motivi privati, utilizza l’auto aziendale durante l’orario di lavoro.

La Suprema Corte ha dichiarato legittimo il licenziamento irrogato al lavoratore a seguito del procedimento disciplinare iniziato con contestazione riferita a episodi di uso del mezzo aziendale per fini extra-lavorativi in orario di lavoro accertati in svariate giornate come da relazione investigativa, ritenuti provati e rientranti nell’ambito degli artt. 2119 c.c. e dell’art. 40 del CCNL per gli addetti all’industria chimica, chimico-farmaceutica, delle fibre chimiche e del settore abrasivi, lubrificanti e GPL del 19.7.2018 applicato al rapporto di lavoro in questione, che prevede la sanzione del licenziamento per l’ipotesi di “irregolare scritturazione, timbratura di cartellino/badge o altra alterazione dei sistemi aziendali di controllo e di presenza effettuate con dolo”.

Con tale provvedimento la Corte di Cassazione ha altresì ritenuto pienamente legittima l’attività investigativa finalizzata a verificare i suddetti comportamenti fraudolenti del dipendente idonei a danneggiare l’azienda escludendo la violazione della privacy, perché il controllo è stato effettuato in luoghi pubblici e allo scopo di accertare le cause dell’allontanamento dal posto di lavoro.

In proposito la Suprema Corte ha ribadito in generale che i controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore, che possano integrare attività fraudolente fonti di danno per il datore medesimo non potendo, invece, avere ad oggetto l’adempimento/inadempimento della prestazione lavorativa in ragione del divieto di cui agli artt. 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori.

In particolare, nel caso da cui trae origine il provvedimento in esame, la Cassazione ha ritenuto che:

  • il controllo del datore di lavoro non era diretto a verificare le modalità di adempimento della prestazione lavorativa, bensì la condotta fraudolenta di assenza del dipendente dal luogo di lavoro, nonostante la timbratura del badge;
  • non sussiste neppure la lamentata violazione della privacy del dipendente seguito nei suoi spostamenti, in quanto il controllo era effettuato in luoghi pubblici e finalizzato ad accertare le cause dell’allontanamento;
  • l’attività fraudolenta del lavoratore è stata ravvisata nella falsa attestazione della presenza in servizio e nell’utilizzo personale del mezzo aziendale, nonostante il lavoratore stesso fosse autorizzato a usare detto mezzo solo per motivi attinenti all’attività lavorativa;
  • la sanzionabilità dell’attività del dipendente, comunque riscontrabile nell’utilizzo improprio della vettura e dell’orario lavorativo retribuito, prescinde dall’integrazione di una fattispecie di reato o dalla quantificazione del danno.

 

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106. La prova del diritto alla provvigione

Con ordinanza n. 5603 del 3 marzo 2025 la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema della prova del diritto alla provvigione.

In particolare, in tale provvedimento la Suprema Corte ha stabilito che:

  • la prova del diritto alla provvigione incombe sull’agente, il quale deve dimostrare la conclusione degli affari, la trasmissione degli stessi e la mancata esecuzione per fatto imputabile alla preponente;
  • le richieste di esibizione documentale e le prove orali devono essere sufficientemente specifiche e circostanziate, pena la loro inammissibilità e il rigetto delle istanze istruttorie per carattere esplorativo.

In buona sostanza, con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione ha ribadito che, in una causa in cui l’agente richiede in giudizio il pagamento delle provvigioni, l’agente deve non solo allegare i fatti costitutivi del proprio diritto indicando in maniera specifica gli affari che si assume aver procurato, ma l’agente deve anche assolvere l’onere di provare gli affari da lui conclusi, non essendo a tal fine sufficiente richiedere l’esibizione delle scritture contabili della preponente, in quanto di per sé tale richiesta ha carattere esplorativo.

 

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86. Richiesta del lavoratore durante la malattia di usufruire delle ferie non godute

Con ordinanza n. 1373 del 20 gennaio 2025 la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro si è pronunciata sulla legittimità della richiesta del lavoratore assente per malattia di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute.

In tale provvedimento la Corte di Cassazione ha ribadito che sussiste un’incompatibilità assoluta tra malattia e ferie, per cui il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare al datore di lavoro la fruizione delle ferie maturate e non godute allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto.

A tale facoltà non corrisponde tuttavia un obbligo del datore di lavoro di accettare comunque la richiesta del lavoratore, ove ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa.

La Suprema Corte ha quindi enunciato il principio che in un’ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è necessario che le dedotte ragioni datoriali per respingere la richiesta del lavoratore siano concrete ed effettive.

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105. Il procacciamento d’affari

Con ordinanza n. 1263 del 19 gennaio 2025 la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul procacciamento d’affari.

In particolare, in tale provvedimento la Suprema Corte ha stabilito che:

  • il rapporto del procacciatore d’affari si concreta nella limitata attività di chi, senza vincolo di stabilità ed in via del tutto episodica, raccoglie gli ordini dei clienti, trasmettendole all’imprenditore da cui ha ricevuto l’incarico di procurare tali commissioni;
  • la prestazione del procacciatore d’affari è occasionale nel senso che dipende esclusivamente dalla sua iniziativa e ha durata limitata nel tempo;
  • il rapporto di procacciamento d’affari è episodico ovvero limitato a singoli affari determinati ed ha ad oggetto la mera segnalazione di clienti o sporadica raccolta di ordini.

 

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104. L’invio della fattura non è sufficiente a interrompere la prescrizione delle provvigioni

Con sentenza n. 2 del 7 gennaio 2025 il Tribunale di Lanciano – Sezione lavoro si è pronunciato sul tema della prescrizione del diritto al pagamento delle provvigioni e sulla idoneità dell’invio della fattura a interrompere tale prescrizione.

In particolare, il Tribunale adito ha stabilito che:

  • il pagamento delle provvigioni è soggetto al termine di prescrizione quinquennale;
  • ai fini dell’interruzione della prescrizione è irrilevante la mera comunicazione al debitore delle somme risultanti a debito dalla contabilità del creditore, se non accompagnata dall’intimazione o richiesta scritta di adempimento idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del creditore di far valere il proprio credito, con l’effetto sostanziale di costituirlo in mora;
  • l’invio della fattura commerciale alla preponente non è idoneo a costituire in mora la preponente e quindi a interrompere il termine prescrizionale di cinque anni, se tale invio non è corredato da una comunicazione scritta dell’agente con cui avvisa espressamente la preponente che se il pagamento della fattura non avverrà entro il termine ivi indicato, la preponente dovrà ritenersi costituita in mora.

In buona sostanza, la sentenza in commento ha statuito che l’invio della fattura relativa alle provvigioni non è di per sé sufficiente a interrompere il termine prescrizionale di cinque anni, laddove l’agente si limiti ad inviare tale fattura alla preponete senza anche inviare insieme alla fattura una richiesta scritta con cui manifesta in maniera espressa e inequivocabile la sua volontà di costituire in mora la preponente in caso di mancato pagamento della fattura.

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