Categoria: Distribuzione Pagina 2 di 3

10. Recesso dal contratto di distribuzione a tempo determinato

Con la sentenza n. 31186 del 28 novembre 2019 la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla possibilità di inserire la facoltà di recesso in un contratto di distribuzione a tempo determinato.

In particolare nella suddetta sentenza la Suprema Corte ha stabilito che esula dallo schema del contratto di agenzia il contratto, con il quale un soggetto si obblighi ad acquistare in via esclusiva dalla controparte una determinata merce, che poi rivende in nome e per conto proprio, anche se all’obbligo di esclusiva si aggiunga, a carico dello stesso soggetto, quello di incrementare e promuovere la vendita di detta merce in base alle direttive impartitegli dal fornitore. Di conseguenza, non si applica l’art. 1750, comma 2, codice civile, che esclude il recesso con preavviso nel caso di agenzia a tempo determinato.

In buona sostanza, la sentenza in commento ha affermato che, diversamente dal contratto di agenzia a tempo determinato, nel contratto di distribuzione a tempo determinato è lecito l’inserimento le parti della facoltà di recesso con preavviso a favore di entrambe.

 

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8. Il caso NIKE e la condanna della Commissione europea

Il caso NIKE e la condanna della Commissione europea per restrizione delle vendite transfrontaliere di prodotti di merchandising

Con la decisione del 25 marzo 2019, pubblicata il 21 giugno 2019, la Commissione europea ha sanzionato l’azienda NIKE con un’ammenda di 12,5 milioni di Euro per aver impedito ai commercianti di vendere prodotti di merchandising sotto licenza in altri paesi dello Spazio economico europeo.

La restrizione interessava il merchandising di alcune delle squadre di calcio e delle federazioni più famose d’Europa, di cui NIKE detiene la licenza. I prodotti di merchandising sotto licenza sono di varia natura (tazze, borse, lenzuola, articoli di cancelleria e giocattoli, solo per citarne alcuni), ma sono tutti accomunati dal fatto che riportano uno o più loghi o immagini coperti da diritti di proprietà intellettuale (DPI), quali marchi commerciali o diritti d’autore.

Tramite un accordo di licenza, una parte (il licenziante) consente all’altra parte (il licenziatario) di sfruttare uno o più DPI di un determinato prodotto. In generale le licenze concesse dai licenzianti sono generalmente di natura non esclusiva, in modo da aumentare il numero di prodotti di merchandising sul mercato e la copertura territoriale.

Le calzature e l’abbigliamento sportivo, prodotti e venduti da NIKE, sono di solito contraddistinti dai marchi registrati dell’azienda, quali il nome o il logo (noto come “Swoosh”).

Su alcuni articoli, i cosiddetti “prodotti di merchandising sotto licenza”, figurano invece solo i simboli di una squadra di calcio o di una federazione e non i marchi commerciali di NIKE. In questi casi Nike agisce in qualità di licenziante dei DPI e concede licenze a terzi, autorizzandoli a produrre e distribuire tali prodotti.

Proprio in relazione a tale sua attività di licenziante per la produzione e la distribuzione di merchandising, NIKE è stata sanzionata dalla Commissione europea.

Nel giugno 2017 la Commissione europea ha infatti aperto un’indagine antitrust su alcune pratiche di concessione delle licenze e distribuzione di NIKE, per accertare se l’azienda stesse limitando illegalmente la vendita transfrontaliera e online, da parte dei commercianti, di prodotti sotto licenza all’interno del mercato unico dell’Unione europea.

Dall’indagine è emerso che gli accordi non esclusivi di licenza e distribuzione sottoscritti da NIKE configuravano una violazione delle norme dell’Unione in materia di concorrenza, in particolare dell’art. 101 del Trattato sul Finanziamento dell’Unione Europea, che vieta gli accordi tra imprese atti a impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato unico dell’Unione europea. Più precisamente, secondo la Commissione europea, NIKE:

  • ha imposto ai licenziatari una serie di misure dirette, che erano finalizzate limitare le vendite al di fuori del territorio loro assegnato, tra cui: (i) clausole che le vietavano esplicitamente, (ii) obblighi di reindirizzare gli ordini non provenienti dal territorio di competenza a NIKE stessa, (iii) clausole che prevedevano il doppio versamento dei diritti di licenza per le vendite al di fuori del territorio;
  • ha adottato misure indirette, che erano finalizzate a mettere in pratica le restrizioni di vendita, ad esempio: (i) minacciando i licenziatari di revocare le loro licenze se avessero venduto al di fuori del territorio di competenza, (ii) rifiutandosi di fornire gli ologrammi che contraddistinguono i prodotti ufficiali se sospettava che questi ultimi potessero essere venduti in altri territori dello Spazio economico europeo, (iii) conducendo ispezioni intese a verificare il rispetto delle restrizioni;
  • ha incaricato alcuni dei licenziatari principali di concedere a terzi sublicenze per l’uso dei vari DPI in ciascun territorio. Per consolidare la pratica lungo tutta la catena di distribuzione, NIKE ha imposto loro misure dirette e indirette, costringendoli a restare all’interno del loro territorio e ad applicare restrizioni nei confronti dei sub-licenziatari;
  • ha introdotto clausole che proibivano esplicitamente ai licenziatari di fornire prodotti di merchandising ai clienti, spesso rivenditori al dettaglio, se c’era la possibilità che questi li vendessero al di fuori del territorio di competenza. Oltre ad obbligare i licenziatari a trasferire i divieti ai propri contraenti, NIKE interveniva per fare in modo che i rivenditori al dettaglio (ad esempio negozi di abbigliamento, supermercati, ecc.) smettessero di acquistare prodotti da licenziatari di altri territori dello Spazio economico europeo.

A seguito di tale istruttoria, la Commissione europea ha concluso che la condotta illegale tenuta da NIKE per circa tredici anni (dall’1 luglio 2004 al 27 ottobre 2017) ha creato barriere all’interno del mercato unico e precluso ai licenziatari le vendite transfrontaliere in Europa, a scapito dei consumatori europei.

Oggetto delle pratiche illecite, seppur in diversa misura, erano i prodotti di merchandising sotto licenza di squadre del calibro di Barcellona, Manchester United, Juventus, Inter e Roma, nonché di federazioni nazionali come la federazione calcistica francese.

NIKE ha collaborato con la Commissione europea al di là dei propri obblighi giuridici, segnatamente condividendo informazioni che hanno permesso alla stessa Commissione di ampliare la portata dell’indagine fino ad includere il merchandising sportivo secondario di diverse squadre aggiuntive.

L’azienda, oltre a fornire prove con un notevole valore aggiunto, ha anche ammesso espressamente i fatti e riconosciuto le violazioni della normativa dell’UE in materia di concorrenza.

Alla luce di queste attenuanti la Commissione europea ha quindi concesso a Nike una riduzione del 40% dell’ammenda, che comunque è stata determinata in 12,5 milioni di Euro.

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7. Invalida l’indicazione del foro competente all’interno della fattura

Invalida l’indicazione del foro competente all’interno della fattura

Con la sentenza 8 marzo 2018, C-64/17, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha dichiarato invalida la clausola attributiva di competenza contenuta nelle condizioni generali di vendita menzionate nelle fatture emesse da una delle parti di un rapporto di distribuzione tra due società europee.

Per meglio comprendere l’importanza della sentenza in esame è utile ricostruire brevemente i fatti di causa, che traggono origine da un rapporto di distribuzione di fatto, e cioè non formalizzato per iscritto, tra la società belga Saey Home & Garden (produttore) e la società portoghese Lusavouga (distributore) avente ad oggetto la distribuzione esclusiva in Spagna di attrezzi e utensili per la cucina recanti il marchio “Barbecook”.

Con mail del 17 luglio 2014 la società produttrice belga informava il distributore portoghese della sua decisione di porre termine alla loro collaborazione commerciale.

In data 19 giugno 2015 il distributore portoghese conveniva in giudizio la società belga dinanzi al Tribunale portoghese di Aveiro al fine di ottenere la condanna di quest’ultima al pagamento di Euro 24.000,00.

La società belga si costituiva in giudizio dinanzi al Tribunale di Aveiro ed eccepiva l’incompetenza dei giudici portoghesi a decidere sulla controversia, rilevando che nelle condizioni generali di vendita menzionate sulle fatture emesse dalla stessa società belga alla società portoghese vi era una clausola in cui si precisava che le eventuali controversie sarebbero state decise dal Tribunale belga di Courtrai.

Il giudice di primo grado respingeva l’eccezione di incompetenza e Saey Home & Garden proponeva appello dinanzi alla Corte d’Appello di Oporto.

La Corte d’Appello di Oporto sospendeva il procedimento e chiedeva alla Corte di giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi sulle due seguenti questioni pregiudiziali:

  • decidere se sia o meno valida una clausola attributiva di competenza contenuta nelle condizioni generali di vendita menzionate nelle fatture emesse dal produttore;
  • determinare il foro competente attraverso la corretta qualificazione del rapporto contrattuale, stabilendo in particolare se era competente il giudice belga in base alla suddetta clausola attributiva di competenza, il giudice spagnolo essendo la Spagna il luogo di esecuzione del contratto oppure il giudice portoghese essendo in Portogallo la sede del distribuito.

Con la sentenza 8 marzo 2018 la Corte di giustizia dell’Unione europea ha così deciso:

  • l’art. 25, paragrafo 1, del Regolamento UE 1215/2012 deve essere interpretato nel senso che, con riserva delle verifiche che spetta al giudice del rinvio effettuare, una clausola attributiva di competenza stipulata in condizioni generali di vendita menzionate in fatture emesse da una delle parti contraenti non soddisfa i requisiti previsti dal suddetto art. 25;
  • l’articolo 7, punto 1, del Regolamento UE 1215/2012 deve essere interpretato nel senso che il giudice competente a conoscere di una domanda risarcitoria relativa alla risoluzione di un contratto di concessione di vendita, concluso fra due società stabilite e operanti in due Stati membri diversi, per la commercializzazione di prodotti sul mercato nazionale di un terzo Stato membro, in cui nessuna delle due suddette società dispone di succursali o di stabilimenti, è quello dello Stato membro in cui si trova il luogo della prestazione principale dei servizi, come si evince dalle disposizioni del contratto nonché, in assenza di disposizioni siffatte, dall’esecuzione effettiva del contratto stesso, e, in caso di impossibilità di determinarlo su tale base, quello del domicilio del prestatore.

In buona sostanza, riguardo alla prima questione pregiudiziale la Corte di giustizia dell’Unione europea ha ritenuto che una clausola derogatoria della competenza contenuta nelle condizioni generali di vendita riportate nelle fatture emesse da una delle parti non soddisfa i requisiti di cui all’art. 25 del Regolamento UE 1215/2012, in quanto tale clausola non risulta essere stata oggetto di pattuizione tra le parti, stante il suo inserimento nelle fatture, che sono documenti emessi unilateralmente da una delle parti e quindi non hanno natura contrattuale.

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6. Il contratto di distribuzione in Spagna

In Spagna il contratto di distribuzione non è disciplinato da una specifica legge, ma, secondo la giurisprudenza spagnola, in presenza di determinati requisiti tale contratto deve essere equiparato al contratto di agenzia, con la conseguenza che al distributore sono dovute le indennità di fine rapporto quando cessa il contratto di distribuzione.

In particolare, secondo i giudici spagnoli, i requisiti che determinano la suddetta equiparazione ed il conseguente riconoscimento delle indennità di fine rapporto in favore del distributore sono i seguenti:

  • si deve trattare di un contratto di distribuzione esclusiva;
  • la cessazione del contratto di distribuzione non deve essere avvenuta su iniziativa del distributore (o concessionario), ma deve essere avvenuta su iniziativa del produttore (o concedente);
  • il distributore deve essere sufficientemente integrato nell’organizzazione del produttore (di solito indici di tale integrazione sono considerati dalla giurisprudenza spagnola: l’obbligo di rispettare i prezzi indicati dal produttore; l’obbligo di informare costantemente il produttore sull’andamento delle vendite; l’obbligo di dare al produttore l’elenco dei clienti);
  • il distributore deve aver apportato nuovi clienti al produttore oppure il distributore deve aver sensibilmente aumentato gli affari del produttore con i clienti esistenti al momento dell’inizio del rapporto;
  • il produttore deve continuare a trarre sostanziali vantaggi dall’attività del distributore anche dopo la cessazione del contratto;
  • il pagamento delle indennità deve apparire equo.

Inoltre, ai fini della quantificazione delle indennità di fine rapporto dovute al distributore in presenza dei requisiti sopra indicati, va considerato che i giudici spagnoli prevedono due tipologie di indennità, che in teoria possono essere riconosciute cumulativamente. Più precisamente la giurisprudenza spagnola prevede le due seguenti tipologie di indennità:

  • l’indennità per clientela;
  • l’indennità per danni e pregiudizi sofferti dal distributore.

L’indennità per clientela consiste nell’indennità dovuta al distributore per la clientela che lo stesso distributore ha procurato al produttore.

I criteri di calcolo di tale indennità variano a seconda se nel contratto di distribuzione sia o meno prevista espressamente l’applicazione analogica delle norme in materia di contratto di agenzia:

  • se è prevista l’applicazione analogica delle norme in materia di contratto di agenzia, l’indennità per clientela viene quantificata sulla base della media dei compensi del distributore negli ultimi cinque anni o, se il contratto di distribuzione ha avuto una durata inferiore a cinque anni, sulla media dei compensi percepiti dal distributore in tale periodo;
  • se non è prevista l’applicazione analogica delle norme in materia di contratto di agenzia, l’indennità per clientela viene quantificata sulla base del lucro cessante.

L’indennità per danni e pregiudizi sofferti dal distributore consiste, invece, nell’indennità dovuta al distributore per i danni da lui subiti per effetto della cessazione del contratto.

Anche in questo caso i criteri di calcolo dell’indennità in esame variano a seconda se nel contratto di distribuzione sia o meno prevista espressamente l’applicazione analogica delle norme in materia di contratto di agenzia:

  • se è prevista l’applicazione analogica delle norme in materia di contratto di agenzia, l’indennità per danni e pregiudizi sofferti dal distributore viene quantificata sulla base dei costi sostenuti dal distributore medesimo, che non sono stati ammortizzati per effetto della cessazione del rapporto;
  • se non è prevista l’applicazione analogica delle norme in materia di contratto di agenzia, l’indennità per danni e pregiudizi sofferti dal distributore viene quantificata sulla base dei danni emergenti.

Infine, per completezza, si segnala che riguardo ai contratti di distribuzione la giurisprudenza spagnola ha elaborato anche il concetto di “debito preavviso”, in virtù del quale in caso di contratto di distribuzione a tempo indeterminato è dovuto dalle parti un preavviso di un mese per ogni anno di durata del contratto con un massimo di sei mesi di preavviso per i contratti di durata pari o superiore ai sei anni, mentre per i contratti di durata pari o inferiore ad un anno è dovuto un periodo di preavviso di un mese.

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5. Il contratto di distribuzione in Svizzera

In Svizzera il contratto di distribuzione non è disciplinato né dal Codice Svizzero delle Obbligazioni, né da altre leggi di tale Paese.

A tale contratto si applicano analogicamente alcune norme del contratto di agenzia, che, invece, è espressamente disciplinato dall’art. 418 del Codice Svizzero delle Obbligazioni.

Stante l’analogia con il contratto di agenzia, secondo il diritto svizzero è possibile pattuire l’esclusiva in un contratto di distribuzione.

In particolare si ha un contratto di distribuzione in esclusiva se al distributore viene attribuito in esclusiva un determinato territorio oppure un determinato canale di vendita.

Sempre in analogia al contratto di agenzia, a seguito della decisione del 22 maggio 2008 del Tribunale Federale Svizzero, i giudici svizzeri hanno dichiarato applicabile l’indennità di fine rapporto prevista in favore degli agenti di commercio dall’art. 418u del Codice Svizzero delle Obbligazioni anche in favore del distributore esclusivo.

Tuttavia, al fine del riconoscimento in favore del distributore esclusivo dell’indennità di fine rapporto, secondo la suddetta decisione del Tribunale Federale Svizzero, devono sussistere tutte le seguenti condizioni:

  • il distributore deve essere fortemente integrato nell’organizzazione del produttore con un’indipendenza economica limitata (indici di tale integrazione sono la previsione nel contratto di distribuzione dei seguenti obblighi: obbligo di rispettare i prezzi indicati dal produttore; obbligo di effettuare ricerche di mercato; obbligo di informare costantemente il produttore dell’andamento delle vendite; obbligo di dare al produttore l’elenco dei clienti);
  • il distributore deve aver considerevolmente aumentato il numero di clienti del produttore (oppure il distributore deve aver sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti);
  • il produttore deve continuare a trarre notevole profitto dall’attività del distributore anche dopo la cessazione del contratto;
  • il pagamento dell’indennità di fine rapporto deve apparire equo.

L’indennità di fine rapporto spettante, se del caso, al distributore esclusivo non può superare il guadagno netto del distributore, da calcolarsi in base alla media degli ultimi cinque anni oppure in base alla durata contrattuale effettiva se tale durata è inferiore ai cinque anni.

Inoltre, per quanto riguarda le norme a tutela della concorrenza, si applicano le norme europee in materia di concorrenza o la Legge Federale Svizzera sui cartelli, a seconda degli stati coinvolti.

Di conseguenza, ad un contratto di distribuzione a cui è applicabile il diritto svizzero ma la cui esecuzione avviene in un paese dell’Unione Europea si applica la normativa europea in materia anticoncorrenziale ed in particolare si applicano gli accordi verticali in materia di distribuzione.

Viceversa, ad un contratto di distribuzione a cui è applicabile il diritto svizzero e la cui esecuzione avviene in Svizzera si applica la Legge Federale Svizzera sui cartelli.

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4. Può sussistere una relazione contrattuale tacita

Secondo la Corte di giustizia dell’Unione europea può sussistere una relazione contrattuale tacita nei rapporti internazionali di lunga durata tra produttore e rivenditore/distributore

Con la sentenza 14/7/2016, C-196/15, la Corte di giustizia dell’Unione europea si è pronunciata sui rapporti commerciali internazionali di lunga durata, in cui un produttore di uno Stato membro dell’Unione europea vende in via continuativa i suoi prodotti ad un rivenditore/distributore di un altro Stato membro, che li rivende nel proprio paese senza però aver stipulato con il produttore alcun contratto scritto disciplinante tale rapporto.

Per meglio comprendere l’importanza della sentenza in commento è utile ricostruire brevemente la vicenda da cui ha tratto origine tale sentenza.

Un’impresa francese (Ambrosi Emmi France SA) distribuiva prodotti alimentari in Francia da circa 25 anni in qualità di rivenditore per un’impresa italiana (Granarolo S.p.A.).

La lunga relazione commerciale non si fondava né su un contratto quadro né su un patto di esclusiva.

Con raccomandata del 10/12/2012 l’impresa italiana comunicava all’impresa francese l’interruzione della relazione commerciale con decorrenza dall’1/1/2013, informando altresì l’impresa francese che da tale data i suoi prodotti sarebbero stati distribuiti in Francia e in Belgio da un’altra impresa francese.

Successivamente l’impresa francese conveniva l’impresa italiana dinanzi al Tribunale commerciale di Marsiglia, sostenendo che la suddetta raccomandata 10/12/2012 costituisse una brusca interruzione di relazioni commerciali stabili, senza l’osservanza di un termine minimo di preavviso, che tenesse conto della durata della loro relazione commerciale.

Pertanto l’impresa francese chiedeva che l’impresa italiana fosse condannata al risarcimento dei danni causati dall’improvvisa interruzione della relazione commerciale.

L’impresa italiana si costituiva in giudizio, contestando la competenza del giudice francese nel procedimento in questione e, quindi, il Tribunale commerciale di Marsiglia rimetteva il giudizio alla Corte d’Appello di Parigi.

La Corte d’Appello di Parigi, chiamata a pronunciarsi sulla competenza o meno del giudice francese, sospendeva il procedimento e sottoponeva alla Corte di giustizia dell’Unione europea due questioni pregiudiziali relative all’articolo 5 del regolamento CE n. 44/2001 del 22/12/2000, riguardante la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (di seguito “regolamento Bruxelles I”).

La Corte di giustizia dell’Unione europea ha affermato che:

  • l’articolo 5, punto 3, del regolamento Bruxelles I dev’essere interpretato nel senso che un’azione di risarcimento fondata su una brusca interruzione di relazioni commerciali stabilite da tempo non rientra nella materia degli illeciti civili dolosi o colposi ai sensi di tale regolamento qualora tra le parti esistesse una relazione contrattuale tacita, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. La dimostrazione volta a provare la sussistenza di una tale relazione contrattuale tacita deve basarsi su un insieme di elementi concordanti, tra i quali figurano, in particolare, l’esistenza di relazioni commerciali stabilite da tempo, la buona fede tra le parti, la regolarità delle transazioni e la loro evoluzione nel tempo espressa in quantità e in valore, gli eventuali accordi sui prezzi fatturati e/o sugli sconti accordati, nonché la corrispondenza intercorsa;
  • l’articolo 5, punto 1, lettera b), del regolamento di Bruxelles I dev’essere interpretato nel senso che relazioni commerciali stabilite da tempo devono essere qualificate come contratti di “compravendita di beni” se l’obbligazione caratteristica del contratto in esame consiste nella consegna di un bene, oppure come contratto di “prestazione di servizi” se tale obbligazione consiste nella fornitura di servizi, circostanze che spetta al giudice del rinvio verificare.

In buona sostanza, con la sentenza in esame la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che una serie di contratti di vendita susseguitisi nel tempo può dar luogo a un tacito “contratto quadro”, qualora sussistano i seguenti elementi:

  • l’esistenza di relazioni commerciali stabilite da tempo;
  • la buona fede tra le parti;
  • la regolarità delle transazioni e la loro evoluzione nel tempo espressa in quantità e in valore;
  • gli eventuali accordi sui prezzi fatturati e/o sugli sconti accordati;
  • la corrispondenza intercorsa.

Il principio di diritto enunciato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza in commento potrebbe risolvere alcune importanti questioni nei rapporti commerciali internazionali di lunga durata, in cui un produttore di uno Stato membro dell’Unione europea vende in via continuativa i suoi prodotti ad un rivenditore/distributore di un altro Stato membro, che li rivende nel proprio paese senza aver stipulato con il produttore alcun contratto scritto disciplinante tale rapporto.

Pertanto, in situazioni come quelle sopra descritte, sarebbe opportuno valutare se formalizzare rapporti commerciali internazionali di lunga durata con uno specifico contratto scritto, in modo da provare a contenere il rischio che si verifichino contenziosi al momento della cessazione di tali rapporti.

In particolare sarebbe opportuno valutare la possibilità di disciplinare tra le parti, prima della cessazione del rapporto, alcuni degli aspetti che determinano maggiori criticità quando si interrompe un rapporto commerciale internazionale di lunga durata, come ad esempio la legge applicabile, il foro competente, il diritto ad un preavviso, il diritto all’eventuale indennità di clientela, le giacenze di magazzino.

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3. I contratti con gli agenti e con i distributori del Regno Unito dopo la Brexit

Il 23 giugno 2016 si è svolto il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, meglio noto come referendum sulla “Brexit”, che si è concluso con un voto favorevole all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

In pratica per gli Stati dell’Unione Europea il Regno Unito diventerà un partner “extracomunitario”, il che implicherà, tra l’altro, anche la rinegoziazione dei vari contratti di agenzia e di distribuzione che le imprese italiane hanno, rispettivamente, con gli agenti e con i distributori del Regno Unito.

Per l’uscita formale del Regno Unito dall’Unione Europea ci vorranno due anni, ma non si conoscono ancora le modalità con cui il Regno Unito attuerà la sua uscita e, quindi, al momento non è possibile esprimersi con certezza su quali saranno gli effetti della Brexit sui contratti in essere con gli agenti e con i distributori del Regno Unito.

Tuttavia, in questa prima fase, è opportuno che le imprese italiane tengano in considerazione le seguenti indicazioni di carattere generale.

  1. A) È importante verificare la giurisdizione applicabile ai contratti in essere con gli agenti e con i distributori del Regno Unito, in quanto:
  • se i contratti attualmente in essere con gli agenti del Regno Unito non prevedono nulla relativamente alla giurisdizione, allora, secondo le norme internazionali, il giudice competente sarà quello del Regno Unito, qualora l’agente svolga la sua prestazione in tale Stato;
  • se i contratti attualmente in essere con i distributori del Regno Unito non prevedono nulla relativamente alla giurisdizione, allora, secondo le norme internazionali, il giudice competente sarà quello del Regno Unito, qualora la distribuzione avvenga in tale Stato.
  1. B) È essenziale verificare la legge applicabile ai contratti in essere con gli agenti e con i distributori del Regno Unito, in quanto:
  • se i contratti attualmente in essere con gli agenti del Regno Unito non prevedono nulla relativamente alla legge applicabile, allora, secondo le norme internazionali, la legge applicabile sarà quella del Regno Unito, qualora l’agente abbia la sua residenza abituale in tale Stato;
  • se i contratti attualmente in essere con i distributori del Regno Unito non prevedono nulla relativamente alla legge applicabile, allora, secondo le norme internazionali, la legge applicabile sarà quella del Regno Unito, dovendosi applicare la legge del paese di residenza del distributore.
  1. C) È fondamentale tenere presente che la Direttiva CEE 653 del 18 dicembre 1986 riguardante gli agenti di commercio è applicabile solo se l’agente svolge la sua attività in un Paese UE, con la conseguenza che, a seguito della Brexit, tale direttiva in teoria non sarà più applicabile agli agenti operanti nel Regno Unito.
  2. D) È importante considerare che nel Regno Unito il diritto dell’agente all’indennità di fine rapporto è disciplinato dal Commercial Agent Regulations n. 3053/1993, che è la legge con cui è stata data attuazione in tale paese alla Direttiva CEE 653 del 18 dicembre 1986. A seguito della Brexit, tale legge continuerà ad essere valida, finché il Regno Unito non deciderà se modificarla o meno.
  3. E) È essenziale tener conto che, ai fini della quantificazione dell’indennità di fine rapporto dovuta all’agente alla cessazione del rapporto, il Commercial Agent Regulations n. 3053/1993 rimette alle parti la possibilità di scegliere tra un’indennità di clientela, limitata ad un massimo di un anno di provvigioni sulla media degli ultimi cinque, dovuta se e nella misura in cui l’agente abbia sviluppato una clientela da cui il preponente possa trarre vantaggio (c.d. modello tedesco) oppure una riparazione del pregiudizio, senza un limite massimo, che viene normalmente calcolata intorno ai due anni di provvigioni (c.d. modello francese). In mancanza di scelta delle parti, secondo il Commercial Agent Regulations n. 3053/1993, si applica il c.d. modello francese.
  4. F) È fondamentale considerare che nel Regno Unito, così come in Italia, il contratto di distribuzione non è regolato dalla legge. In caso di cessazione di un contratto di distribuzione nel Regno Unito, al pari dell’Italia, non è previsto in favore del distributore il riconoscimento di un’indennità di fine rapporto.
  5. G) È importante tener presente che se ai contratti attualmente in essere con i distributori del Regno Unito si applica la legge italiana, allora, secondo la giurisprudenza italiana, il distributore che ha acquistato merce con segni distintivi del concedente ha diritto alla commercializzazione del prodotto anche successivamente alla data di cessazione del rapporto, qualora il contratto di distribuzione non regolamenti le modalità di smaltimento delle giacenze di magazzino rimaste invendute a tale data e, in particolare, non preveda un obbligo di riacquisto dei beni da parte del concedente, né la facoltà di smaltirli da parte del distributore.

In conclusione, negoziare, redigere e concludere contratti con agenti e distributori del Regno Unito dopo la Brexit richiederà maggiori attenzioni e comporterà problematiche più complesse rispetto a quelle relative ai contratti con agenti e distributori di paesi dell’Unione Europea, per cui sarà necessario affidarsi ad un esperto di contrattualistica internazionale, che valuti attentamente le circostanze specifiche del singolo contratto.

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2. La scelta del tipo di intermediario per entrare in un nuovo mercato estero

La scelta del tipo di intermediario per entrare in un nuovo mercato estero

Quando un’impresa decide di entrare in un nuovo mercato estero deve innanzitutto decidere se avvalersi di intermediari in senso stretto oppure di intermediari-rivenditori.

Gli intermediari in senso stretto (e cioè agenti di commercio, procacciatori d’affari, ecc.) sono soggetti che promuovono la conclusione di contratti in cambio di una provvigione.

Gli intermediari-rivenditori (e cioè distributori, importatori esclusivi, ecc.) svolgono compiti analoghi sotto il profilo commerciale a quelli degli intermediari in senso stretto, ma operano come acquirenti-rivenditori, remunerati attraverso un margine (differenza tra prezzo di acquisto e rivendita).

Per l’impresa esportatrice le due figure sopra indicate rappresentano, rispetto all’apertura di una propria filiale all’estero, una soluzione intermedia assai interessante per i seguenti motivi:

  • tali figure comportano per l’impresa esportatrice costi limitati, per di più rapportati alle vendite effettive (vuoi a titolo di provvigione per gli intermediari in senso stretto, vuoi come margine lasciato all’intermediario-rivenditore);
  • tali figure possono consentire all’impresa esportatrice di realizzare, attraverso una struttura dedicata una propria politica di commercializzazione, prevedendo ad esempio che gli intermediari in senso stretto o gli intermediari-rivenditori si impegnino a non distribuire prodotti in concorrenza.

Ad ogni modo, esistono delle differenze anche operative tra le due figure: l’intermediario in senso stretto consente all’esportatore un più efficace controllo sulla clientela (alla quale sarà l’esportatore a vendere direttamente), mentre gli intermediari-rivenditori tendono ad escludere l’impresa esportatrice da ogni rapporto con gli acquirenti finali.

Al tempo stesso però, l’intermediario–rivenditore organizza tutta la fase della rivendita, sollevando l’impresa esportatrice ed i clienti finali da una serie di incombenze (sdoganamento, spedizione al destinatario, magazzinaggio), oltre che rivelandosi di solito più adatto allo svolgimento di servizi accessori, che richiedono la predisposizione di apposite strutture. Ciò spiega il successo della figura dell’intermediario–rivenditore nella vendita di prodotti per i quali sono richiesti anche servizi accessori.

Inoltre, per quanto riguarda la suddivisione dei rischi commerciali, nella distribuzione attraverso intermediari in senso stretto il rischio di insolvenza del cliente finale rimane interamente a carico dell’impresa esportatrice.

Nella distribuzione attraverso intermediari-rivenditori, invece, gli stessi assumono per intero sia il rischio della mancata rivendita dei prodotti acquistati, sia quello del mancato pagamento da parte dei clienti.

Tuttavia nella prassi tale differenza è molto attenuata: nei frequentissimi casi, in cui l’intermediario-rivenditore paga la merce posticipatamente con il ricavato delle vendite da lui effettuate, l’insolvenza dei clienti finali si ripercuoterà di fatto sull’impresa esportatrice.

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1. Il contratto internazionale di distribuzione commerciale

Sempre più spesso si parla di internazionalizzazione delle imprese italiane, ma al momento di organizzare la propria rete commerciale all’estero l’imprenditore si trova di fronte a diverse opzioni, ognuna delle quali può incidere in maniera significativa sul buon esito o meno della sua iniziativa imprenditoriale.

Uno dei contratti più utilizzati per la creazione di una rete commerciale all’estero è – insieme al contratto internazionale di agenzia – il contratto internazionale di distribuzione commerciale (detto anche contratto internazionale di concessione di vendita).

Nonostante nella maggior parte dei paesi UE o extra UE il contratto di distribuzione commerciale non sia regolato dalla legge, stanno però emergendo in alcuni Paesi (ad esempio Portogallo, Belgio, Germania, Spagna e Israele) prassi giurisprudenziali che, in presenza di determinati presupposti, prevedono in favore del distributore il riconoscimento di un’indennità in caso di cessazione del contratto.

Il contratto internazionale di distribuzione può essere a tempo determinato oppure a tempo indeterminato.

Con tale contratto l’impresa esportatrice si obbliga a fornire per la durata del contratto stesso i prodotti oggetto della concessione ad un rivenditore/distributore e quest’ultimo, a sua volta, si obbliga ad acquistarli dall’impresa esportatrice ed a rivenderli in un determinato territorio (un paese straniero o più spesso un’area geografica omogenea), agendo in nome proprio, per proprio conto ed a proprio rischio.

Quando si redige un contratto internazionale di distribuzione commerciale è opportuno definire in maniera chiara e dettagliata i seguenti aspetti:

  • il ruolo del distributore;
  • l’imposizione di listini di rivendita, di obbligo di acquisto in esclusiva e in generale tutte quelle obbligazioni che potrebbero configurare una sorta di dipendenza commerciale;
  • le obbligazioni del distributore, che assume nel paese di riferimento il ruolo di venditore del prodotto in concessione;
  • un territorio proporzionato alle effettive capacità imprenditoriali del distributore, che potrà essere designato come unico distributore dei prodotti contrattuali oppure affiancato dall’impresa esportatrice (che così si riserva la possibilità di effettuare vendite dirette) o ancora essere posto in competizione con un numero limitato di concorrenti tutti parte della rete distributiva;
  • il listino prezzi e la modalità di adeguamento dei prezzi medesimi, i termini e le condizioni di fornitura e resa della merce, la suddivisione degli oneri, dei rischi di trasporto e dei costi accessori;
  • i mezzi di pagamento e le garanzie bancarie da presentare all’impresa esportatrice per il pagamento degli stock ordinati dal distributore;
  • gli obblighi e i divieti che graveranno in capo al distributore in caso di importazione di un prodotto caratterizzato da marchio e brevetto;
  • la legge applicabile al contratto;
  • la giurisdizione e la scelta del foro competente in caso di contenzioso o, in alternativa, di arbitrato internazionale.

Di solito le imprese italiane non prestano la dovuta attenzione agli aspetti sopra indicati e preferiscono utilizzare modelli contrattuali standard (se non addirittura sottoscrivere accordi predisposti dal distributore estero), senza effettuare preliminarmente una valutazione delle singole clausole contrattuali con un esperto di contrattualistica, in modo da cercare di prevenire complessi e costosi contenziosi internazionali basati su legislazioni e prassi giurisprudenziali diverse da quella italiana.

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9. La tutela del concept store e la diffusione degli e-shop

La tutela del concept store e la diffusione degli e-shop

La tutela del lay-out di un negozio, ossia dell’arredamento degli interni e in generale del concept caratterizzante un esercizio commerciale (cosiddetto “concept store”), è stato oggetto recentemente di alcune interessanti pronunce giurisprudenziali, che esamineremo in sintesi nel presente articolo.

Nel commercio al dettaglio sono sempre più diffusi punti vendita (spesso monomarca) contraddistinti da un particolare lay-out, e cioè da una elaborazione progettuale dei locali commerciali, detta per l’appunto concept, che veicola uno specifico messaggio commerciale.

In altri termini, il concept store rappresenta quella specifica composizione dei moduli di arredamento, disposti in una determinata maniera in tutti i punti vendita, che crea il fil rouge per il pubblico: fa riconoscere e ricollega i negozi stessi a una medesima impresa.

Il concept store assume particolare rilevanza sia commerciale che giuridica quando “originale” è la combinazione di elementi funzionali (sedie, scaffalature, illuminazione) ed estetici (colore delle pareti e tipologia di pavimenti, tendaggi, abbigliamento del personale).

Posto che non è raro notare come l’allestimento interno di un negozio venga riprodotto illecitamente da parte dei concorrenti, nel caso di un concept store“originale” si pone per le imprese il problema della tutela dalla concorrenza sleale e dalle violazioni del diritto d’autore.

In proposito si segnala che il Tribunale di Milano ha accolto il ricorso di una società contro una concorrente, riconoscendo la tutela del diritto d’autore all’elaborazione progettuale dei suoi negozi monomarca effettuata da uno studio di architettura e registrata come modello italiano.

La società condannata è stata ritenuta colpevole di avere operato una “diretta appropriazione del concept della catena concorrente, con una ripresa integrale degli elementi di arredo”.

Il Tribunale di Milano ha, quindi, inibito l’uso dell’arredo oggetto del contendere, condannando la società resistente anche al pagamento dei danni ed alla modifica di tutti i suoi punti vendita entro 60 giorni.

In particolare la quantificazione del risarcimento del danno liquidato in via equitativa nella somma di Euro 716.250,00 è stata effettuata utilizzando come criterio principale il risparmio che la società resistente ha potuto ottenere grazie allo sfruttamento del progetto di architettura della società ricorrente. Tale importo è stato, poi, aumentato in base al numero dei negozi ai quali la società condannata ha illegittimamente applicato il concept. A ciò è stato aggiunto il rimborso delle spese investigative sostenute dalla società danneggiata, oltre al riconoscimento delle spese legali quantificate nella somma di Euro 26.400,00.

L’efficacia della sentenza in commento è stata poi sospesa dalla Corte d’Appello di Milano, che ha effettuato una valutazione comparativa, all’esito della quale ha ritenuto prevalente il danno che deriverebbe all’appellante dall’esecuzione della sentenza rispetto a quello che deriverebbe all’appellata dalla mancata esecuzione della stessa e ha quindi disposto la sospensione della provvisoria esecutorietà della sentenza del Tribunale di Milano. Ne consegue che la società ricorrente dovrà attendere la conferma in secondo grado per ottenere la piena esecuzione della decisione di primo grado.

Ad ogni modo, tale sentenza del Tribunale di Milano è molto interessante, in quanto riconosce all’arredamento degli interni una protezione ampia e di lunga durata.

Ai progetti di arredamento di interni viene infatti riconosciuta la tutela del diritto autore: a tal fine è necessario il requisito della creatività, la quale, a detta del Tribunale di Milano, non può essere esclusa soltanto perché l’opera consiste in idee semplici o comunque presenti nel patrimonio collettivo, laddove sussista un’interpretazione personale e autonoma, da parte dell’autore, di dati della realtà tali da conferire all’interior design un carattere originale nel suo insieme.

Viene altresì riconosciuta una protezione, residuale e concorrente, avverso qualsivoglia atto di concorrenza sleale parassitaria, consistente nell’imitazione degli arredamenti interni dei negozi: ciò che davvero rileva non è la confondibilità tra i lay-out dei negozi, quanto piuttosto la pluralità di elementi imitativi utilizzati al fine di sfruttare sistematicamente il lavoro, la creatività e gli investimenti altrui, in esplicita violazione dei principi di correttezza professionale.

Si sottolinea inoltre come l’imitazione possa considerarsi illecita soltanto se effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (in caso di concorrenza parassitaria diacronica) o dall’ultima e più significativa di esse (in caso di concorrenza parassitaria sincronica).

Ciò detto, va altresì evidenziato che, nel caso di specie, pur menzionandola, la società ricorrente non abbia azionato la registrazione per modello relativa al “Design di arredi di interni per negozi monomarca”, molto probabilmente perché proprio il Tribunale di Milano in un caso precedente, pur non escludendo in generale che un modello possa tutelare un progetto d’arredamento, aveva ritenuto che il modello azionato dalla stessa società ricorrente non avesse ad oggetto il concept, ma solo “specifici elementi di arredo”.

Sul tema, il Tribunale di Bologna si è peraltro espresso in senso diametralmente opposto rispetto al Tribunale di Milano, ritenendo che il conceptd’arredamento non possa proprio rientrare nella definizione di “disegno o modello”.

In proposito non va peraltro ignorata la possibilità di tutelare il concept come marchio di forma: la Corte di giustizia europea ha già confermato che, in presenza di idonea capacità distintiva, la rappresentazione “dell’allestimento di uno spazio di vendita mediante un insieme continuo di linee, di contorni e di forme può costituire un marchio”.

Nell’ambito del quadro giurisprudenziale qui sopra brevemente delineato, da un punto operativo va infine considerato che lo sviluppo dell’e-commerce ha profondamente modificato il sistema del commercio al dettagliooggi sempre più ad appannaggio degli e-shop di fascia alta, che offrono una copertura planetaria e permettono alle imprese di intercettare i consumatori più giovani (i millennial e la generazione Z).

Appare dunque prevedibile che la brand identity – costruita dalle imprese con una forte integrazione tra off line e on line, in cui lo spazio fisico non scompare ma diventa il volano anche per le vendite via web – richiederà forme di tutela sempre più adeguate rispetto alle condotte scorrette delle imprese concorrenti sia off line che on line.

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