Categoria: Il contratto di distribuzione in Italia

9. La tutela del concept store e la diffusione degli e-shop

La tutela del concept store e la diffusione degli e-shop

La tutela del lay-out di un negozio, ossia dell’arredamento degli interni e in generale del concept caratterizzante un esercizio commerciale (cosiddetto “concept store”), è stato oggetto recentemente di alcune interessanti pronunce giurisprudenziali, che esamineremo in sintesi nel presente articolo.

Nel commercio al dettaglio sono sempre più diffusi punti vendita (spesso monomarca) contraddistinti da un particolare lay-out, e cioè da una elaborazione progettuale dei locali commerciali, detta per l’appunto concept, che veicola uno specifico messaggio commerciale.

In altri termini, il concept store rappresenta quella specifica composizione dei moduli di arredamento, disposti in una determinata maniera in tutti i punti vendita, che crea il fil rouge per il pubblico: fa riconoscere e ricollega i negozi stessi a una medesima impresa.

Il concept store assume particolare rilevanza sia commerciale che giuridica quando “originale” è la combinazione di elementi funzionali (sedie, scaffalature, illuminazione) ed estetici (colore delle pareti e tipologia di pavimenti, tendaggi, abbigliamento del personale).

Posto che non è raro notare come l’allestimento interno di un negozio venga riprodotto illecitamente da parte dei concorrenti, nel caso di un concept store“originale” si pone per le imprese il problema della tutela dalla concorrenza sleale e dalle violazioni del diritto d’autore.

In proposito si segnala che il Tribunale di Milano ha accolto il ricorso di una società contro una concorrente, riconoscendo la tutela del diritto d’autore all’elaborazione progettuale dei suoi negozi monomarca effettuata da uno studio di architettura e registrata come modello italiano.

La società condannata è stata ritenuta colpevole di avere operato una “diretta appropriazione del concept della catena concorrente, con una ripresa integrale degli elementi di arredo”.

Il Tribunale di Milano ha, quindi, inibito l’uso dell’arredo oggetto del contendere, condannando la società resistente anche al pagamento dei danni ed alla modifica di tutti i suoi punti vendita entro 60 giorni.

In particolare la quantificazione del risarcimento del danno liquidato in via equitativa nella somma di Euro 716.250,00 è stata effettuata utilizzando come criterio principale il risparmio che la società resistente ha potuto ottenere grazie allo sfruttamento del progetto di architettura della società ricorrente. Tale importo è stato, poi, aumentato in base al numero dei negozi ai quali la società condannata ha illegittimamente applicato il concept. A ciò è stato aggiunto il rimborso delle spese investigative sostenute dalla società danneggiata, oltre al riconoscimento delle spese legali quantificate nella somma di Euro 26.400,00.

L’efficacia della sentenza in commento è stata poi sospesa dalla Corte d’Appello di Milano, che ha effettuato una valutazione comparativa, all’esito della quale ha ritenuto prevalente il danno che deriverebbe all’appellante dall’esecuzione della sentenza rispetto a quello che deriverebbe all’appellata dalla mancata esecuzione della stessa e ha quindi disposto la sospensione della provvisoria esecutorietà della sentenza del Tribunale di Milano. Ne consegue che la società ricorrente dovrà attendere la conferma in secondo grado per ottenere la piena esecuzione della decisione di primo grado.

Ad ogni modo, tale sentenza del Tribunale di Milano è molto interessante, in quanto riconosce all’arredamento degli interni una protezione ampia e di lunga durata.

Ai progetti di arredamento di interni viene infatti riconosciuta la tutela del diritto autore: a tal fine è necessario il requisito della creatività, la quale, a detta del Tribunale di Milano, non può essere esclusa soltanto perché l’opera consiste in idee semplici o comunque presenti nel patrimonio collettivo, laddove sussista un’interpretazione personale e autonoma, da parte dell’autore, di dati della realtà tali da conferire all’interior design un carattere originale nel suo insieme.

Viene altresì riconosciuta una protezione, residuale e concorrente, avverso qualsivoglia atto di concorrenza sleale parassitaria, consistente nell’imitazione degli arredamenti interni dei negozi: ciò che davvero rileva non è la confondibilità tra i lay-out dei negozi, quanto piuttosto la pluralità di elementi imitativi utilizzati al fine di sfruttare sistematicamente il lavoro, la creatività e gli investimenti altrui, in esplicita violazione dei principi di correttezza professionale.

Si sottolinea inoltre come l’imitazione possa considerarsi illecita soltanto se effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (in caso di concorrenza parassitaria diacronica) o dall’ultima e più significativa di esse (in caso di concorrenza parassitaria sincronica).

Ciò detto, va altresì evidenziato che, nel caso di specie, pur menzionandola, la società ricorrente non abbia azionato la registrazione per modello relativa al “Design di arredi di interni per negozi monomarca”, molto probabilmente perché proprio il Tribunale di Milano in un caso precedente, pur non escludendo in generale che un modello possa tutelare un progetto d’arredamento, aveva ritenuto che il modello azionato dalla stessa società ricorrente non avesse ad oggetto il concept, ma solo “specifici elementi di arredo”.

Sul tema, il Tribunale di Bologna si è peraltro espresso in senso diametralmente opposto rispetto al Tribunale di Milano, ritenendo che il conceptd’arredamento non possa proprio rientrare nella definizione di “disegno o modello”.

In proposito non va peraltro ignorata la possibilità di tutelare il concept come marchio di forma: la Corte di giustizia europea ha già confermato che, in presenza di idonea capacità distintiva, la rappresentazione “dell’allestimento di uno spazio di vendita mediante un insieme continuo di linee, di contorni e di forme può costituire un marchio”.

Nell’ambito del quadro giurisprudenziale qui sopra brevemente delineato, da un punto operativo va infine considerato che lo sviluppo dell’e-commerce ha profondamente modificato il sistema del commercio al dettagliooggi sempre più ad appannaggio degli e-shop di fascia alta, che offrono una copertura planetaria e permettono alle imprese di intercettare i consumatori più giovani (i millennial e la generazione Z).

Appare dunque prevedibile che la brand identity – costruita dalle imprese con una forte integrazione tra off line e on line, in cui lo spazio fisico non scompare ma diventa il volano anche per le vendite via web – richiederà forme di tutela sempre più adeguate rispetto alle condotte scorrette delle imprese concorrenti sia off line che on line.

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8. Recesso dal contratto di distribuzione e violazione del principio di buona fede

Recesso dal contratto di distribuzione e violazione del principio di buona fede

Con la sentenza n. 691 del 5 febbraio 2018 la Corte d’Appello di Roma è tornata a pronunciarsi sul noto “caso Renault” dopo il rinvio della Suprema Corte ad altra sezione della medesima Corte d’Appello di Roma, a seguito della cassazione della precedente sentenza del giudice di secondo grado.

Nel caso di specie alcuni ex concessionari della Renault avevano impugnato il recesso a loro comunicato dalla casa automobilistica, lamentandone l’irragionevolezza e l’illegittimità, pur se i relativi contratti di concessione di vendita attribuissero alla Renault il diritto di sciogliere unilateralmente dal contratto senza alcuna giustificazione. I giudici di merito avevano rigettato le domande degli attori, affermando la piena liceità della condotta della convenuta che, per la preventiva scelta operata allatto della determinazione del contenuto del contratto, appariva legittimata a sottrarsi ad “ogni controllo causale sull’esercizio di tale potere”.

La Corte di Cassazione è stata chiamata a vagliare la legittimità della decisione che aveva ritenuto l’esercizio di un recesso ad nutum non assoggettabile ad una forma di controllo fondata sul principio di buona fede ed è pervenuta a conclusioni molto chiare almeno sul punto della sussistenza di un preciso e ineludibile dovere di valutazione che il giudice non può omettere di osservare.

In particolare, la Corte di Cassazione ha stabilito che la pretesa fatta valere dai concessionari “revocati” va valutata accertando se il recesso comunicato loro dalla Renault sia stato (nonostante l’avvenuta intimazione del preavviso) “inaspettato e sorprendente” e se, quindi, la società concedente con il proprio comportamento abbia generato un “legittimo affidamento” circa la continuazione del rapporto.

In altre parole, si tratta di verificare se il recesso della casa automobilistica concedente abbia o meno integrato una violazione del dovere di buona fede.

Secondo la Corte di Cassazione, tale verifica, da un lato, non è condizionata e circoscritta dalla necessità di riscontrare particolari circostanze qualificanti (ad es. il dolo, inteso come intenzione di nuocere), ma, dall’altro, deve limitarsi ad un controllo di tipo esclusivamente procedurale (il controllo sulle modalità dell’agire), che non può spingersi a sindacare i motivi (o lo “scopo”) per il quale il recesso ad nutum è stato posto in essere.

Chiariti i limiti dell’indagine demandata alla Corte d’Appello di Roma come giudice del rinvio, la sentenza in esame nulla ha accertato in ordine alla legittimità o meno della scelta strategica di Renault di recedere dai contratti con i concessionari, posto che non è possibile – secondo il principio elaborato dalla Corte di Cassazione e sopra esposto – sindacare su di una scelta di mercato, andando ad incidere sull’autonomia negoziale di un soggetto, nel caso di specie la casa automobilistica Renault, in mancanza di prove sulle finalità ulteriori e diverse rispetto a quelle contrattuali idonee a giustificare il recesso ad nutum della casa madre.

In altri termini, la seconda Sezione della Corte d’Appello di Roma non ha ritenuto agevole accedere alla tesi dei concessionari “revocati” (secondo i quali lo scopo ultroneo ed anomalo della società concedente sarebbe stato l’inserimento di ex dirigenti Renault nella rete di vendita al fine di evitare gravosi impegni economici legati allo scioglimento del rapporto di lavoro con questi ultimi), a fronte di una comprovata e già nota scelta di riorganizzazione aziendale da parte dei vertici della stessa Renault.

La Corte d’Appello di Roma ha ritenuto invece che il comportamento di Renault non sia stato improntato ai necessari criteri di correttezza e lealtà sotto il profilo della buona fede oggettiva nell’ambito dell’esecuzione del rapporto contrattuale, in considerazione del breve lasso di tempo intercorso tra:

  • l’imposizione da parte della Renault ai propri concessionari di investimenti e obiettivi minimi, preordinati a realizzare nuovi show room, ad incrementare pubblicità, ad aprire sub-concessionarie, ecc.; e
  • la comunicazione di recesso con preavviso di dodici mesi, che non consentiva ai destinatari di ammortizzare gli impegni economici che gran parte dei concessionari “revocati” aveva sostenuto per incrementi di capitale, per la costruzione di sedi, per l’acquisto di notevoli quantità di materiale di ricambio e per l’assunzione di personale.

L’affidamento su una ragionevole continuità del rapporto, desumibile dalla (allora) recente sottoscrizione di patti aggiuntivi al contratto di concessione, contenenti l’accettazione delle richieste di incremento del fatturato e sforzi programmatici, è risultato così frustrato dalla scelta improvvisa di estinguere ogni rapporto, senza dare ai concessionari la possibilità di rinegoziare la durata del contratto, ovvero di proporre in ipotesi un’indennità di fine rapporto idonea a tamponare gli effetti economici pregiudizievoli, o ancora di accedere ad un preavviso più lungo di quello stabilito nel contratto.

Avendo accertato che il recesso ad nutum della società concedente è stato esercitato con modalità contrarie a buona fede, la Corte di Appello di Roma come giudice del rinvio si è quindi posta il problema di accertare, caso per caso, quale sia stato il danno subito da ciascun concessionario, determinando l’ammontare tenuto anche conto che, almeno quindici dei ventiquattro concessionari revocati, hanno stipulato nuovi contratti di concessione con altre case automobilistiche, utilizzando le strutture commerciali già realizzate.

In proposito la Corte di Appello di Roma ha escluso che ai concessionari debba essere riconosciuta un’indennità di avviamento o di clientela come previsto nel contratto di agenzia, richiamandosi sul punto alla Corte di Cassazione che, nella sentenza con cui ha cassato la sentenza di secondo grado, ha espressamente escluso qualsiasi rapporto di analogia fra il contratto di concessione di vendita e il contratto di agenzia, anche nel caso in cui il contratto di concessione di vendita si estingua per effetto del recesso della società concedente, esercitato con modalità contrarie alla buona fede.

Con la sentenza in esame la Corte di Appello di Roma ha infine esaminato, caso per caso, sulla base di un giudizio di diritto caratterizzato dalla c.d. equità correttiva (o integrativa), le posizioni dei singoli concessionari, ipotizzando che, a causa del comportamento della Renault, tutti i soggetti “revocati” avessero fatto affidamento su una prosecuzione del rapporto per un periodo compreso tra due e cinque anni.

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7. L’obbligo della dicitura distributore autorizzato nei documenti utilizzati con la clientela

L’obbligo della dicitura “distributore autorizzato” nei documenti utilizzati con la clientela

Con la sentenza del 5 aprile 2017 il Tribunale di Milano è tornato a pronunciarsi in materia di contratto di distribuzione commerciale ed in particolare si è pronunciato sull’omissione da parte del distributore della dicitura “distributore autorizzato” nei documenti utilizzati nei rapporti con la clientela.

Per meglio comprendere la sentenza in commento è utile ricostruire brevemente la vicenda da cui ha tratto origine tale sentenza.

Nel caso di specie la società Alfa aveva convenuto in giudizio la società Beta per sentir dichiarare l’inadempimento di quest’ultima alle obbligazioni assunte con il contratto di distribuzione stipulato tra le parti in data 17 marzo 2008 e sentire conseguentemente condannare Beta al pagamento della penale convenuta, pari a € 150.000,00, nonché al pagamento dell’importo di € 43.560,00, dovuto a titolo di royalties, oltre al risarcimento del danno contrattuale ed extracontrattuale derivante dallo sviamento di clientela causato dall’inadempimento di Beta rispetto ad una specifica clausola del suddetto contratto, secondo cui quest’ultima società si impegnava ad inserire in tutti i documenti, fiscali e non, utilizzati per il normale rapporto con la clientela o per le operazioni di marketing, nonché sul proprio sito aziendale, la dicitura “distributore autorizzato”.

Beta, costituendosi, chiedeva il rigetto della domanda di parte attrice e, in via riconvenzionale, chiedeva altresì che il Tribunale dichiarasse che il contratto si fosse risolto per inadempimento di Alfa e condannasse quest’ultima società al risarcimento dei danni subiti dalla stessa Beta.

All’esito dell’istruttoria, consistita nell’assunzione delle prove orali, il Tribunale di Milano:

  • ha condannato Beta a pagare, in favore di Alfa, la somma di € 43.560,00, a titolo di royalties;
  • ha respinto le altre domande di Alfa e la domanda riconvenzionale formulata da Beta;
  • ha condannato Beta a rifondere ad Alfa la metà delle spese di lite, compensando fra le parti la restante metà.

La sentenza del 5 aprile 2017 del Tribunale di Milano è interessante, in quanto – con particolare riferimento all’asserita violazione da parte del distributore Beta dell’obbligo contrattuale di inserire la dicitura “distributore autorizzato” in tutti i documenti, fiscali e non, utilizzati nei rapporti con la clientela o per le operazioni di marketing, nonché sul proprio sito aziendale – il Giudice adito ha ritenuto che non comporta un illecito sviamento della clientela l’episodica e non sistematica condotta posta in essere da un distributore autorizzato, nel caso di specie Beta, che abbia omesso di esplicitare nei contratti di licenza e nei rapporti di clientela la sua qualità di “mero distributore”.

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6. Gli obblighi del distributore secondo la Corte di Cassazione

Gli obblighi del distributore secondo la Corte di Cassazione

Con la sentenza n. 4948 del 27 febbraio 2017 la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del contratto di distribuzione commerciale (detto anche contratto di concessione di vendita), precisando gli obblighi a carico del distributore (detto anche concessionario), che derivano dalla sottoscrizione di tale contratto.

La sentenza in commento è interessante, in quanto, dopo aver ribadito la natura giuridica del contratto di distribuzione commerciale, ha precisato gli obblighi a carico del distributore, che derivano dalla sottoscrizione di tale contratto, ossia l’obbligo di promuovere la rivendita dei prodotti acquistati dal concedente e di promuoverne la vendita e l’obbligo di incrementare la commercializzazione di tali prodotti in base alle direttive impartitegli dal concedente stesso.

Per meglio comprendere l’importanza della sentenza in commento è utile ricostruire brevemente la vicenda da cui ha tratto origine tale sentenza.

Con atto di citazione del 25 giugno 2001 la società italiana Alfa conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Mantova, sezione distaccata di Castiglione delle Stiviere, la società austriaca Beta, chiedendo che venisse accertata la risoluzione del contratto di distribuzione commerciale stipulato tra le parti in data 1 febbraio 1999 per inadempimento da parte del distributore austriaco dell’obbligo di svolgere attività di promozione e di vendita dei prodotti acquistati dalla società italiana, nonché dell’obbligo del raggiungimento dei quantitativi minimi di vendita fissati per ciascun anno, con conseguente condanna risarcitoria della società Beta a corrispondere in favore della società Alfa Euro 218.850,00.

In particolare la società concedente italiana nell’atto di citazione sottolineava che dal mese di febbraio 2000 il distributore austriaco aveva interrotto unilateralmente ogni rapporto commerciale, cessando di acquistare e di vendere i prodotti della società Alfa.

Si costituiva in giudizio la società Beta, che non contestava di aver interrotto l’esecuzione del contratto di distribuzione commerciale, ma deduceva i precedenti inadempimenti della società Alfa quanto alla violazione del patto di esclusiva concesso per l’Austria, chiedendo così di accertare in via riconvenzionale la risoluzione del contratto per inadempimento della società concedente italiana, con conseguente condanna al risarcimento dei danni.

Il Tribunale di Mantova, sezione distaccata di Castiglione delle Stiviere, dichiarava risolto il contratto del 1 febbraio 1999 a far data dal 28 aprile 2000 per inadempimento del distributore austriaco, condannando quest’ultimo a risarcire i danni liquidati in Euro 180.388,37, oltre interessi, mentre rigettava le domande riconvenzionali.

La società austriaca Beta proponeva appello principale, mentre la società italiana Alfa proponeva appello incidentale per ottenere il maggior importo risarcitorio richiesto in primo grado.

La Corte d’Appello di Brescia, con sentenza n. 868/2012 del 2 luglio 2012, in parziale accoglimento del gravame proposto dal distributore austriaco, rigettava la domanda di risoluzione del contratto e conseguente risarcimento proposta dalla società concedente italiana.

In particolare la Corte d’Appello di Brescia evidenziava che la domanda della società Alfa fosse fondata sulla condotta inadempiente della società Beta per il mancato raggiungimento degli obiettivi minimi di vendita per gli anni 1999 e 2000, con correlati danni per lucro cessante e danno emergente (mancato incasso del fatturato e corresponsione delle royalties al titolare del marchio), laddove la clausola n. 35.4 del contratto del 1 febbraio 1999, proprio per l’ipotesi del mancato raggiungimento degli obiettivi minimi di vendita da parte del distributore, non prevedeva alcun risarcimento in favore del concedente, ma solo un diritto per quest’ultimo di porre termine al contratto. Parimenti la Corte d’Appello di Brescia rigettava la domanda di risoluzione proposta dal distributore austriaco basata sulla violazione del patto di esclusiva, alla luce delle prove testimoniali assunte.

Contro la sentenza della Corte d’Appello di Brescia proponeva ricorso in Cassazione la società concedente italiana, evidenziando che la domanda di risoluzione del contratto di distribuzione commerciale da lei proposta fosse stata basata sull’arbitraria interruzione degli acquisti da parte del distributore austriaco e non, come erroneamente inteso dalla corte territoriale bresciana, sul mancato raggiungimento degli obiettivi minimi di vendita, che rappresentava la conseguenza dell’inadempimento posto in essere da tale distributore.

Con la sentenza n. 4948 del 27 febbraio 2017 la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dalla società Alfa, rilevando in linea generale che:

  • secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione la concessione di vendita è un contratto atipico, non inquadrabile tra quelli di scambio con prestazioni periodiche, avente natura di contratto normativo, dal quale deriva l’obbligo per il concessionario sia di promuovere la formazione di singoli contratti di compravendita, sia di concludere contratti di puro trasferimento dei prodotti, che gli vengono forniti, mediante la stipulazione a condizioni predeterminate nell’accordo iniziale;
  • nel contratto di concessione di vendita il concessionario rivenditore assume l’obbligo di promuovere la rivendita dei prodotti che vengono acquisiti mediante la stipulazione (alle condizioni predeterminate dal contratto normativo) di singoli contratti d’acquisto, assumendo altresì l’impegno di incrementare la commercializzazione di tali prodotti in base alle direttive impartitegli dal concedente.

Nel caso di specie, rispetto all’obbligo di svolgere attività di promozione e di vendita dei prodotti acquistati dalla società italiana Alfa, la società austriaca Beta si era resa inadempiente dal febbraio 2000, avendo interrotto improvvisamente gli acquisti, da cui era derivato inevitabilmente il mancato raggiungimento degli obiettivi minimi di vendita.

 

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5. La differenza tra distributore all’ingrosso e distributore al dettaglio

La differenza tra distributore all’ingrosso e distributore al dettaglio

Il contratto di distribuzione viene utilizzato sia per la vendita all’ingrosso, sia per la vendita al dettaglio, con la conseguenza che nella prassi sussistono due tipologie di distributori:

  • il distributore all’ingrosso;
  • il distributore al dettaglio.

Nel primo caso al distributore viene affidato l’incarico di occuparsi della distribuzione dei prodotti del produttore in una determinata nazione (c.d. importatore esclusivo) o in una determinata zona geografica.

Nel secondo caso, invece, al distributore viene affidato l’incarico di occuparsi della distribuzione dei prodotti del produttore al consumatore finale.

Nonostante in entrambi i casi si applica il medesimo contratto, tra le due suddette tipologie di distributori vi sono le seguenti differenze:

  • il distributore all’ingrosso ha un minor grado di dipendenza dal produttore rispetto al distributore al dettaglio;
  • il distributore all’ingrosso è normalmente legato ad un territorio (uno Stato o una zona all’interno dello stesso), mentre il distributore al dettaglio è di solito legato ad un punto vendita (negozio);
  • il distributore all’ingrosso ha come clientela altri commercianti o catene commerciali, mentre il distributore al dettaglio ha come clientela i consumatori finali.

In considerazione delle sopra indicate peculiarità dei distributori al dettaglio, la giurisprudenza ha sviluppato alcuni orientamenti protettivi nei loro confronti, specie con riferimento ai concessionari di automobili.

Per contro, nel contesto dei distributori all’ingrosso è divenuta sempre più rilevante la negoziazione delle clausole del “contratto quadro” di distribuzione, che la giurisprudenza ritiene comunque esistere qualora tra le parti sussista nei fatti una duratura relazione contrattuale seppure tacita.

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4. Quando un acquirente-rivenditore è un cliente abituale o un distributore

Quando un acquirente-rivenditore è un “cliente abituale” o un distributore?

A volte avvengono casi in cui un produttore vende i suoi prodotti ad un altro soggetto, che li acquista per rivenderli in nome proprio, senza però che tra l’acquirente-rivenditore ed il produttore siano state stabilite le condizioni della loro collaborazione commerciale.

In tali situazioni va verificato se l’acquirente-rivenditore sia qualificabile come un “cliente abituale” del produttore oppure come un suo distributore.

In proposito occorre aver presente che:

  • il “cliente abituale” è un acquirente-rivenditore che instaura con il produttore una costante relazione d’affari, attraverso una serie di compravendite susseguitesi nel tempo, ma senza fissare ulteriori obblighi né da una parte (ad es. obbligo di promozione, obbligo di assistenza per l’omologazione dei prodotti, obbligo di partecipazione a fiere, ecc.), né dall’altra parte (ad es. obbligo del produttore di rispettare un preavviso qualora decida di smettere di rifornire la controparte);
  • il distributore, invece, si distingue dal “cliente abituale”, in quanto – pur in assenza di un contratto scritto che formalizzi tale ruolo – il distributore è legato al produttore da un rapporto continuativo di collaborazione commerciale, che non può essere interrotto senza un congruo preavviso e da cui scaturiscono una serie di responsabilità in capo al distributore stesso (ad es. obbligo di promozione, obbligo di assistenza per l’omologazione dei prodotti, obbligo di partecipazione a fiere, ecc.), a fronte dell’eventuale riconoscimento in suo favore dell’esclusiva.

Per un produttore è opportuno ricorrere ad un “cliente abituale” quando vuole:

  • “testare” un nuovo acquirente-rivenditore prima di instaurare eventualmente con lui un formale rapporto di distribuzione;
  • valutare l’affidabilità/solvibilità economica del nuovo acquirente-rivenditore;
  • provare a penetrare in un nuovo territorio, sperimentando la situazione di rischio del territorio stesso.

Per un produttore è, invece, opportuno ricorrere ad un distributore quando:

  • è sicuro dell’affidabilità/solvibilità economica di un acquirente-rivenditore (anche nuovo);
  • vuole essere presente in un determinato territorio, senza però avere un suo negozio diretto e/o una sua sede secondaria;
  • vuole formalizzare un rapporto di lunga durata con un acquirente-rivenditore con cui non aveva in precedenza mai stipulato alcun contratto scritto.

Nulla vieta, quindi, che un acquirente-rivenditore dapprima sia un “cliente abituale” di un produttore e poi diventi un suo vero e proprio distributore.

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3. Le condizioni di legittimità di un sistema di distribuzione selettiva

Le condizioni di legittimità di un sistema di distribuzione selettiva

Con provvedimento del 17/3/2016 il Tribunale di Milano ha precisato le condizioni di legittimità di un sistema di distribuzione selettiva, intendendosi come tale un “sistema di distribuzione nel quale il fornitore s’impegna a vendere i beni o i servizi oggetto del contratto, direttamente o indirettamente, solo ai distributori selezionati sulla base di criteri specificati e nel quale questi distributori s’impegnano a non vendere tali beni o servizi a rivenditori non autorizzati nel territorio che il fornitore ha riservato a tale sistema (Reg. UE 330/2010)”.

In particolare il Tribunale di Milano ha rilevato che un sistema di distribuzione selettiva, anche se limita la concorrenza sul mercato, può costituire una modalità di commercializzazione legittima in base alla normativa europea quando ricorrono determinate condizioni relative alla natura del prodotto, ai criteri di scelta di natura oggettiva e qualitativa dei rivenditori e alla misura dei limiti alla concorrenza.

In buona sostanza, un sistema di distribuzione selettiva è legittimo se:

  • riguarda particolari tipologie di beni di elevato livello tecnico per i quali l’acquirente necessiti di specifica assistenza;
  • riguarda beni di lusso e di prestigio, che richiedono ingenti investimenti da parte del titolare;
  • impone limiti alla concorrenza stabiliti in modo oggettivo, tenuto conto delle qualità professionali dei rivenditori.

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2. Il principio di buona fede nella cessazione del contratto di concessione di vendita

Il principio di buona fede nella cessazione del contratto di concessione di vendita

Nell’esecuzione di un qualsiasi contratto il principio di buona fede non solo opera come criterio di reciprocità, imponendo a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, ma costituisce anche un dovere giuridico autonomo a carico di entrambe le parti, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali.

Ne deriva che, nel contratto di concessione di vendita, colui che abbia acquistato merce con segni distintivi del concedente ha diritto alla commercializzazione del prodotto anche successivamente alla data di cessazione del rapporto, qualora il contratto di concessione di vendita non regolamenti le modalità di smaltimento delle giacenze di magazzino rimaste invendute a tale data e, in particolare, non preveda un obbligo di riacquisto dei beni da parte del concedente, né la facoltà di smaltirli da parte del concessionario.

In tal caso, quindi, il concedente non può opporsi alla circolazione di un prodotto nel territorio di uno Stato membro dell’Unione Europea, quando tale prodotto sia stato immesso sul mercato dal concessionario con il consenso preventivo del concedente.

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1. I contratti più diffusi nella distribuzione commerciale

I contratti più diffusi nella distribuzione commerciale sono il procacciamento d’affari, il contratto di agenzia, il contratto di concessione di vendita, il contratto di franchising e il contratto di licenza.

Tali contratti hanno delle affinità e delle caratteristiche peculiari che di seguito illustreremo brevemente.  

Il procacciamento d’affari

Il procacciamento d’affari è uno strumento assai flessibile e privo di particolari obbligazioni da parte di chi conferisce l’autorizzazione, che non andrebbe utilizzato nel caso di collaborazioni stabili.

Infatti il rapporto di procacciatore d’affari si concretizza nell’attività di chi, in via del tutto episodica, raccoglie gli ordini dei clienti trasmettendoli all’imprenditore da cui ha ricevuto l’autorizzazione orale o scritta di procurare affari.

Tale attività dipende esclusivamente dall’iniziativa del procacciatore e ha carattere occasionale, quanto meno rispetto al numero degli affari procurati.

Il contratto di agenzia

Il contratto di agenzia è il principale strumento utilizzato per la creazione di reti vendita ed è caratterizzato dal maggior impianto normativo di riferimento, contenuto nel codice civile, in leggi speciali e negli accordi economici collettivi.

Con tale contratto un’impresa affida stabilmente ad un agente (persona fisica o società) l’incarico di promuovere, nella zona assegnatagli, la conclusione di contratti.

L’agente commerciale svolge, quindi, a titolo di professione abituale, l’incarico di promuovere gli affari relativi a beni o servizi, per conto di produttori, industriali o commerciali.

Nel caso in cui gli venga conferito anche l’incarico di concluderli, assume la veste di agente con rappresentanza o rappresentante di commercio.  

Il contratto di concessione di vendita

Il contratto di concessione di vendita ha per oggetto esclusivamente la fornitura di prodotti industriali o comunque di beni materiali.

Nella concessione di vendita, a parte eventuali pagamenti per materiali pubblicitari e simili, normalmente non è previsto per il concedente alcun compenso addizionale rispetto al prezzo di quanto fornito.

I vincoli di condotta del concessionario sono attenuati e per lo più finalizzati a consentire al concedente un controllo minimo sull’attività del concessionario stesso, il quale, almeno formalmente, non è tenuto ad osservare un particolare “modus operandi” del concedente e a conformarsi all’immagine di quest’ultimo.

L’uso di segni distintivi del concedente è un elemento eventuale ed accessorio del contratto ed il concessionario può, quindi, utilizzare una propria insegna, che, eventualmente affiancata dal marchio del concedente, potrebbe risultare anche preminente rispetto a quest’ultimo.

Il contratto di franchising

Il franchising è un contratto atipico, disciplinato nel nostro ordinamento da una legge speciale, che nella prassi si è andato affermando soprattutto come strumento di distribuzione commerciale all’interno di un singolo Stato.

Con tale contratto vengono disciplinate una pluralità di prestazioni che, se considerate singolarmente, risultano peculiari di altre forme di rapporto, quali ad esempio i rapporti di licenza (di brevetto, di marchio, di know-how) e di concessione di vendita – anche loro atipici – e i rapporti – tipici – di affitto o locazione (di immobili) e di comodato (di attrezzature, arredi, impianti mobili).

Il franchising costituisce, quindi, un’ipotesi di contratto misto o complesso e presenta caratteristiche che lo contraddistinguono dai suddetti rapporti, non tanto sul piano giuridico, quanto nella natura degli obiettivi perseguiti, negli obblighi tra le parti e per la presenza di alcuni vincoli specifici, come quello per il franchisee di conformarsi ad uno standard di condotta prefissato dal franchisor, nel rispetto dell’uniformità di immagine della rete.  

Il contratto di licenza

ll contratto di licenza è lo strumento contrattuale che viene utilizzato nella prassi (usualmente, anche se non esclusivamente, nell’ambito di rapporti di sub-fornitura) per trasferire un brevetto o un know-how da uno Stato ad un altro, a fronte del pagamento di una somma iniziale per la concessione della licenza e delle c.d. royalties sulle unità prodotte e/o vendute.

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