Autore: FTA Pagina 15 di 26

20. Il diritto di precedenza del lavoratore a tempo determinato rispetto alle nuove assunzioni

Il diritto di precedenza del lavoratore a tempo determinato rispetto alle nuove assunzioni

L’art. 24 del Decreto legislativo n. 81 del 15 giugno 2015 stabilisce che:

  • il lavoratore che, nell’esecuzione di uno o più contratti a tempo determinato presso la stessa azienda, ha prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine;
  • il diritto di precedenza deve essere espressamente richiamato nella lettera di assunzione;
  • l’esercizio del diritto di precedenza è soggetto ad uno specifico termine di decadenza, decorrente dalla data di cessazione del rapporto di lavoro.

Come chiarito dalla giurisprudenza, la finalità del diritto di precedenza nei contratti a termine consiste nel garantire prioritariamente la rioccupazione presso la medesima azienda a coloro che sono stati assunti con contratti a termine, in modo da “stabilizzare” il posto di lavoro in considerazione del pregresso rapporto di lavoro rispetto alle nuove assunzioni.

In buona sostanza, il diritto di precedenza nei contratti a termine funge da garanzia nei confronti di eventuali abusi da parte del datore di lavoro relativamente alla sostituzione a breve della forza lavoro con altra forza lavoro, eventualmente selezionata sotto un profilo di minor costo aziendale.

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19. La sospensione cautelare non va confusa con la sospensione disciplinare

La sospensione cautelare non va confusa con la sospensione disciplinare

Nella gestione del personale occorre tener presente la differenza tra la sospensione cautelare e la sospensione disciplinare, trattandosi di due misure diverse.

La sospensione cautelare è una misura provvisoria diretta a sospendere dal servizio il lavoratore contestualmente alla contestazione dei fatti e per tutta la durata del procedimento, con la conseguenza che:

  • la decisione di applicare tale misura va indicata nella lettera di contestazione disciplinare;
  • la misura provvisoria cessa nel momento in cui termina il procedimento disciplinare.

Il datore di lavoro può applicare la sanzione cautelare nel caso in cui sussistano “gravi motivi” e cioè quando, ad esempio, i tempi del procedimento disciplinare siano incompatibili con la presenza in azienda del dipendente, in considerazione della gravità delle infrazioni disciplinari contestate e/o della necessità del datore di lavoro di accertare i fatti senza la presenza del lavoratore in azienda.

Di regola, la sospensione cautelare non comporta il venir meno della retribuzione, a meno che non sia espressamente prevista dal CCNL la facoltà di sospendere anche la retribuzione.

La sanzione disciplinare, invece, è una misura non provvisoria, che il datore di lavoro applica al termine del procedimento disciplinare e che consente la decurtazione della retribuzione per tutti i giorni di applicazione della sanzione stessa.

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18. Il requisito di specificità della causale apposta ai contratti a tempo determinato

Il requisito di specificità della causale apposta ai contratti a tempo determinato

Con ordinanza del 22 gennaio 2019 n. 1616 la Corte di Cassazione ha stabilito che il requisito di specificità della causale apposta ai contratti a tempo determinato, previsto dall’art. 1 del decreto legislativo n. 368 del 2001, è ineludibile al pari della forma scritta ad substantiam del contratto, imposta dall’art. 4 del medesimo decreto, con la conseguenza il predetto requisito della specificità della causale risulta mancante se di fatto consiste nel generico richiamo alle previsioni della contrattazione collettiva, per giunta – nel caso di specie, deciso dalla Suprema Corte – senza alcuno specifico riferimento alle esigenze eventualmente previste dal CCNL di riferimento in materia di lavoro a tempo determinato.

La Corte di Cassazione ha aggiunto che è la parte datoriale che deve altresì dimostrare l’effettività di quanto enunciato nella clausola contrattuale per giustificare l’apposizione del termine. Infatti, secondo la Suprema Corte, va attribuito alla parte datoriale l’onere di dimostrare le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, giustificanti l’apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato, ai sensi del citato art. 1 del decreto legislativo n. 368 del 2001, in quanto regime derogatorio alla forma comune del rapporto di lavoro, che è a tempo indeterminato, per cui tale onere è maggior ragione a carico di parte datoriale rispetto a quello, esplicitamente disciplinato dall’art. 4 del medesimo decreto n. 368 in ordine all’ipotesi di proroga del termine.

Tale sentenza, che riguarda la disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato contenuta nel decreto legislativo n. 368 del 2001, andrà tenuta presente anche considerando il ritorno alle “causali” previste per i contratti di durata superiore ai 12 mesi dal c.d. “Decreto dignità” (decreto legge n. 87/2018, convertito in legge n. 96 del 9 agosto 2018), che ha modificato il c.d. Jobs Act (decreto legislativo n. 81/2015), noto per aver eliminato l’obbligo di specificare le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo previste per l’appunto dall’art. 1 del decreto legislativo n. 368.

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17. Superamento del periodo di comporto e successiva aspettativa

Superamento del periodo di comporto e successiva aspettativa

Con la sentenza del 30 novembre 2018 la Corte d’Appello di Milano ha riconosciuto al datore di lavoro la facoltà di recedere da un rapporto di lavoro una volta esaurita l’aspettativa richiesta da un dipendente dopo essersi assentato per un periodo eccedente il periodo di comporto.

Come noto, il periodo di comporto è quel periodo massimo di malattia previsto nel Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro di riferimento, durante il quale datore di lavoro non può validamente esercitare il suo diritto di recedere dal contratto. Una volta superato tale periodo, il lavoratore perde il proprio diritto alla conservazione del posto di lavoro.

La Corte d’Appello di Milano, riformando la sentenza di primo grado del Tribunale di Milano, ha seguito l’orientamento della Corte di Cassazione – Sezione Lavoro, che con la sentenza 20 settembre 2016 n. 18420 aveva stabilito quanto segue:

  • nel caso di concessione, al compimento del periodo di comporto, di un periodo di aspettativa, seppure inferiore al massimo di cui il lavoratore possa usufruire per legge, è legittima l’intimazione di licenziamento per superamento del periodo di comporto;
  • la normativa si limita a fissare un limite massimo alla durata dell’aspettativa, ma lascia intatta sia la facoltà del lavoratore di richiedere un periodo inferiore, sia la potestà datoriale di recedere dal rapporto una volta che il periodo di aspettativa concretamente concesso sia spirato.

Pertanto con la sentenza in commento la Corte d’Appello di Milano ha precisato che:

  • documentando il perdurare dello stato di malattia, il lavoratore che ha superato il periodo di comporto può richiedere al termine di tale periodo ed al suo rientro in servizio, la fruizione di un periodo di aspettativa anche in misura inferiore a quella prevista dalla normativa di riferimento;
  • una volta esaurita tale aspettativa, il datore di lavoro ha diritto di recedere dal rapporto di lavoro per il superamento del periodo di comporto da parte del lavoratore.

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16. Ulteriori novità sul contratto di lavoro a tempo determinato dopo il c.d. Decreto Dignità

Ulteriori novità sul contratto di lavoro a tempo determinato dopo il c.d. Decreto Dignità

Il decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, convertito dalla legge 9 agosto 2018, n. 96 (c.d. Decreto Dignità), ha introdotto, con gli articoli 1 e 2, rilevanti novità alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, modificando il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (c.d. Job Act).

Per favorire l’uniforme applicazione della nuova disciplina il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha fornito al riguardo le prime indicazioni interpretative con la Circolare n. 17 del 31 ottobre 2018.

Nel presente articolo si illustreranno in breve i seguenti aspetti della suddetta disciplina: il regime delle proroghe e dei rinnovi del contratto a termine, il rinvio alla contrattazione collettiva, la forma scritta del termine e il contributo addizionale a carico del datore di lavoro.

Il regime delle proroghe e dei rinnovi del contratto a termine è stato modificato in ordine alla durata massima e alle condizioni.

È possibile prorogare liberamente un contratto a tempo determinato entro i 12 mesi, mentre per il rinnovo è sempre richiesta l’indicazione della causale.

La proroga presuppone che restino invariate le ragioni che avevano giustificato inizialmente l’assunzione a termine, fatta eccezione per la necessità di prorogarne la durata entro il termine di scadenza.

Ne consegue che non è possibile prorogare un contratto a tempo determinato modificandone la motivazione, in quanto ciò darebbe luogo ad un nuovo contratto a termine ricadente nella disciplina del rinnovo, anche se ciò avvenisse senza soluzione di continuità con il precedente rapporto.

Si ricade altresì nell’ipotesi del rinnovo qualora un nuovo contratto a termine decorra dopo la scadenza del precedente contratto.

Ulteriore novità della disciplina in esame è rappresentata dalla riduzione del numero massimo di proroghe, che non possono essere superiori a 4, entro i limiti di durata massima del contratto e a prescindere dal numero dei contratti; con esclusione dei contratti instaurati per lo svolgimento di attività stagionali.

I contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale potranno continuare a prevedere una durata diversa, anche superiore, rispetto al nuovo limite massimo dei 24 mesi.

Viene esclusa la possibilità di desumere da elementi esterni al contratto la data di scadenza, ferma restando la possibilità che, in alcune situazioni, il termine del rapporto di lavoro continui a desumersi indirettamente in funzione della specifica motivazione che ha dato luogo all’assunzione, come in caso di sostituzione della lavoratrice in maternità di cui non è possibile conoscere, ex ante, l’esatta data di rientro al lavoro, sempre nel rispetto del termine massimo di 24 mesi.

Il contributo addizionale a carico del datore di lavoro – pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali applicato ai contratti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato – è incrementato dello 0,5% in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in somministrazione.

Di conseguenza, al primo rinnovo la misura ordinaria dell’1,4% andrà incrementata dello 0,5%. In tal modo verrà determinata la nuova misura del contributo addizionale cui aggiungere nuovamente l’incremento dello 0,5% in caso di ulteriore rinnovo.

Analogo criterio di calcolo dovrà essere utilizzato per eventuali rinnovi successivi, avuto riguardo all’ultimo valore base che si sarà venuto a determinare per effetto delle maggiorazioni applicate in occasione di precedenti rinnovi.

La maggiorazione dello 0,5% non si applica invece in caso di proroga del contratto.

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15. Il contratto di lavoro a tempo determinato dopo il c.d. Decreto Dignità

Il contratto di lavoro a tempo determinato dopo il c.d. Decreto Dignità

Il decreto legge n. 87 del 12 luglio 2018 (c.d. “Decreto Dignità”), convertito in legge n. 96 del 9 agosto 2018, ha introdotto rilevanti novità alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, modificando il decreto legislativo n. 81 del 15 giugno 2015 (c.d. “Job Act”).

Per favorire l’uniforme applicazione della nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha fornito al riguardo le prime indicazioni interpretative con la circolare n. 17 del 31 ottobre 2018.

Nel presente articolo si inizierà ad illustrare la nuova disciplina del contratto a tempo determinato partendo dalla “causale” e dal c.d. periodo transitorio.

Le modifiche alla disciplina previgente del contratto di lavoro a tempo determinato apportate dall’articolo 1, comma 1, del decreto legge n. 87 del 2018 (c.d. “Decreto Dignità”) riguardano in primo luogo la riduzione da 36 a 24 mesi della durata massima del contratto a tempo determinato con riferimento ai rapporti stipulati tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, anche per effetto di una successione di contratti conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale, indipendentemente dai periodi di interruzione.

Più precisamente le parti possono stipulare liberamente un contratto di lavoro a termine di durata non superiore a 12 mesi, mentre in caso di durata superiore a 12 mesi tale possibilità è riconosciuta esclusivamente in presenza delle seguenti motivazioni:

  • esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività;
  • esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
  • esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.

Per stabilire se ci si trovi in presenza dell’obbligo di inserire la “causale” si deve tener conto della durata complessiva dei rapporti di lavoro a termine intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, considerando sia la durata di quelli già conclusi, sia la durata di quello che si intende eventualmente prorogare.

Ad esempio nel caso di un rapporto a termine della durata di 10 mesi che si intenda prorogare di ulteriori 6 mesi, anche se la proroga interviene quando il rapporto non ha ancora superato i 12 mesi, sarà comunque necessario indicare come “causale” una delle esigenze sopra indicate, in quanto complessivamente il rapporto di lavoro avrà una durata superiore al suddetto limite temporale di 12 mesi.

Infatti la c.d. “causale” è sempre necessaria quando si supera il periodo di 12 mesi, anche se il superamento avviene a seguito di proroga di un contratto originariamente inferiore ai 12 mesi.

Peraltro è utile ricordare che anche nelle ipotesi in cui non è richiesto al datore di lavoro di indicare le motivazioni introdotte dal c.d. “Decreto Dignità”, le stesse dovranno essere comunque indicate per usufruire dei benefici previsti da altre disposizioni di legge (ad esempio per gli sgravi contributivi riconosciuti ai datori di lavoro che assumono a tempo determinato in sostituzione di lavorartici e lavoratori in congedo).

Il decreto legge in esame non ha, invece, modificato la previsione di cui all’articolo 19, comma 3, del decreto legislativo n. 81/2015 (c.d. “Job Act”) in base al quale, raggiunto il limite massimo di durata del contratto a termine, le parti possono stipulare un ulteriore contratto della durata massima di 12 mesi presso le sedi territorialmente competenti dell’Ispettorato nazionale del lavoro. Anche a tale contratto si applica la nuova disciplina dei rinnovi, la quale impone l’obbligo di individuazione della “causale”: mantengono quindi validità le indicazioni a suo tempo fornite dello stesso Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con la circolare n. 13/2008 in merito alla “verifica circa la completezza e la correttezza formale del contenuto del contratto”, nonché alla “genuinità del consenso del lavoratore alla sottoscrizione dello stesso, senza che tale intervento possa determinare effetti certificativi in ordine alla effettiva sussistenza dei presupposti giustificativi richiesti dalla legge.”.

Riguardo all’entrata in vigore della nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato si evidenzia che inizialmente nel c.d. “Decreto Dignità” era stato prevista l’applicazione delle nuove disposizioni ai contratti di lavoro a termine stipulati dopo la data di entrata in vigore del medesimo decreto, nonché ai rinnovi e alle proroghe dei contratti in corso alla medesima data.

Successivamente, in sede di conversione, è stato stabilito che  la nuova disciplina si applica ai rinnovi e alle proroghe dei contratti di lavoro a tempo determinato solo dopo il 31 ottobre 2018, per cui fino a tale data le proroghe e i rinnovi restano disciplinati dalle precedenti disposizioni del “Job Act”.

Dal 1° novembre 2018 si applicano, pertanto, ai contratti di lavoro a tempo determinato tutte le disposizioni introdotte dal “Decreto Dignità”.

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14. Legittima la compensazione tra il TFR del dipendente e il risarcimento dei danni causati dallo stesso dipendente

Legittima la compensazione tra il TFR del dipendente e il risarcimento dei danni causati dallo stesso dipendente

Con ordinanza del 26 aprile 2018 n. 10132 la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro ha confermato l’orientamento più recente della giurisprudenza in materia di compensazione c.d. atecnica o impropria tra crediti, anche di diversa natura, che scaturiscono da un unico rapporto di lavoro subordinato.

Nel caso di specie i crediti consistevano, da un lato, nel trattamento di fine rapporto di un lavoratore dipendente e, dall’altro, nei gravi danni subiti dalla datrice di lavoro a causa del comportamento illecito del dipendente, che era stato licenziato dall’azienda con riferimento a fatti emersi nell’ambito di un procedimento penale concernente episodi di corruzione, per i quali il medesimo lavoratore era stato sottoposto a misura cautelare.

Con il ricorso in cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano, la datrice di lavoro aveva chiesto che venisse riconosciuto il proprio diritto di opporre in compensazione, rispetto al trattamento di fine rapporto invocato dal dipendente, le proprie pretese risarcitorie.

La Suprema Corte ha accolto tale ricorso basando la sua decisione sulla legittimità della compensazione c.d. atecnica o impropria, quando la reciproca relazione di debito/credito trae origine da un unico rapporto (come è indubbiamente il rapporto di lavoro) ancorché le ragioni di credito siano fondate su titoli di diversa natura, l’una contrattuale (il trattamento di fine rapporto) e l’altra extra-contrattuale (il risarcimento danni).

Nell’ordinanza in commento viene ribadito dalla Corte di Cassazione che si è in presenza di compensazione c.d. impropria quando la reciproca relazione di debito/credito nasce da un unico rapporto (qual è indubbiamente il rapporto di lavoro), in cui l’accertamento contabile del saldo finale delle contrapposte partite può essere compiuto dal giudice d’ufficio, diversamente da quanto accade invece nel caso di compensazione c.d. propria, che, per operare, presuppone  l’autonomia dei rapporti e richiede l’eccezione di parte.

In buona sostanza, la Suprema Corte ha evidenziato che in tema di estinzione delle obbligazioni è configurabile la cosiddetta compensazione atecnica quando i crediti abbiano origine da un unico rapporto, la cui identità non è esclusa dal fatto che uno di essi abbia natura risarcitoria derivando da inadempimento, posto che in tal caso la valutazione delle reciproche pretese comporta l’accertamento del dare e avere, senza che sia necessaria la proposizione di un’apposita domanda riconvenzionale o di un’apposita eccezione di compensazione, che per contro presuppongono l’autonomia dei rapporti ai quali i crediti si riferiscono.

Sulla base di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha ribadito che, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1241 del codice civile, la disciplina della compensazione è applicabile anche nelle ipotesi in cui le reciproche ragioni di credito, pur avendo il loro comune presupposto nel medesimo rapporto, siano fondate su titoli aventi natura diversa e più precisamente tra crediti di natura contrattuale (ad esempio il trattamento di fine rapporto del dipendente) e crediti di natura extracontrattuale (ad esempio il risarcimento dei danni causati al datore di lavoro dai comportamenti illeciti del dipendente).

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13. Il contratto di prestazione occasionale

Il contratto di prestazione occasionale

L’articolo 54-bis del decreto legge 24 aprile 2017, n. 50 ha modificato la disciplina delle prestazioni di lavoro occasionali di natura subordinata, stabilendo la possibilità per i datori di lavoro di acquisire prestazioni di lavoro occasionali nei limiti previsti dalla stessa norma sopra menzionata, secondo due distinte modalità di utilizzo:

  • il Libretto Famiglia;
  • il Contratto di prestazione occasionale.

Le due tipologie di contratto di lavoro si riferiscono a diverse categorie di datori di lavoro e presentano profili di specificità in relazione all’oggetto della prestazione, alla misura minima dei compensi e dei connessi diritti di contribuzione sociale obbligatoria, nonché alle modalità di assolvimento degli adempimenti informativi verso l’INPS.

Ciò detto, sulla base delle previsioni del comma 1, dell’art. 54-bis, del citato decreto sono da intendersi per prestazioni di lavoro occasionali le attività lavorative che vengono rese nel rispetto delle previsioni che regolano i contratti di lavoro introdotti dalla norma (Libretto Famiglia e Contratto di prestazione occasionale) e dei seguenti limiti economici, tutti riferiti all’anno civile di svolgimento della prestazione lavorativa:

  1. per ciascun prestatore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori, a compensi di importo complessivamente non superiore a € 5.000,00;
  2. per ciascun utilizzatore, con riferimento alla totalità dei prestatori, a compensi di importo complessivamente non superiore a € 5.000,00;
  3. per le prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore dello stesso utilizzatore, a compensi di importo non superiore a € 2.500,00.

Detti importi sono riferiti ai compensi percepiti dal prestatore, ossia al netto di contributi, premi assicurativi e costi di gestione.

Ai fini del rispetto dei limiti di compenso annuo riferiti a ciascun utilizzatore con riguardo alla totalità dei prestatori, nell’ipotesi 2) la misura del compenso è calcolata sulla base del 75% del suo effettivo importo per le seguenti categorie di prestatori:

  • titolari di pensione di vecchiaia o di invalidità;
  • giovani con meno di venticinque anni di età, se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado ovvero a un ciclo di studi presso l’università;
  • persone disoccupate, ai sensi dell’articolo 19 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150;
  • percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione, ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito.

Nel caso di prestatori percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione e di altre prestazioni di sostegno del reddito, comprese le prestazioni erogate dai Fondi di solidarietà, l’INPS provvede a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa alle prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito, laddove prevista, gli accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni occasionali rese dal prestatore.

Diversamente, i limiti di compenso complessivo nell’ipotesi 1) e 3) e riferiti a ciascun singolo prestatore sono sempre da considerare nel loro valore nominale.

Il prestatore ha diritto al riposo giornaliero, alle pause e ai riposi settimanali.

L’erogazione del compenso al lavoratore avviene, entro il giorno 15 del mese successivo a quello di svolgimento della prestazione, a cura dell’INPS. In particolare, l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale provvede a conteggiare tutti i compensi relativi a prestazioni di lavoro occasione (Libretto di Famiglia e Contratto di prestazione occasionale) rese nell’ambito del mese e ad erogarli, nel loro importo totale, entro il giorno 15 del mese successivo a quello di svolgimento della prestazione, attraverso accredito delle somme sul conto corrente bancario fornito dal prestatore all’atto della registrazione o a seguito di successive variazioni dei dati anagrafici ovvero, in mancanza dell’indicazione dei dati bancari, attraverso bonifico bancario domiciliato che può essere riscosso presso uno degli uffici territoriali della rete di Poste Italiane S.p.A.

La gestione delle prestazioni occasionali, ivi inclusa l’erogazione del compenso ai prestatori, è supportata da un’apposita piattaforma telematica predisposta dall’INPS, fruibile attraverso l’accesso al sito internet dell’Istituto – www.inps.it – al seguente servizio: Prestazioni Occasionali.

Gli adempimenti di registrazione, da parte degli utilizzatori e dei prestatori, nonché di comunicazione dei dati relativi alla prestazione lavorativa possono essere svolti:

  • direttamente dall’utilizzatore/prestatore, attraverso l’accesso alla citata piattaforma telematica con l’utilizzo delle proprie credenziali personali;
  • avvalendosi dei servizi di contact center INPS, che gestiranno, per conto dell’utente (utilizzatore/prestatore), lo svolgimento delle attività di registrazione e/o degli adempimenti di comunicazione della prestazione lavorativa. Anche in tal caso, è preliminarmente necessario che l’utente risulti in possesso delle credenziali personali.

Le operazioni di registrazione e di svolgimento degli adempimenti informativi possono essere altresì svolte dagli intermediari di cui alla legge 11 gennaio 1979, n. 12 e dagli enti di patronato di cui alla 30 marzo 2001, n. 152, esclusivamente per i seguenti servizi:

  • registrazione del prestatore;
  • tutti gli adempimenti relativi all’utilizzo del Libretto Famiglia da parte dell’utilizzatore e del prestatore.

Infine la norma in esame prevede dei limiti e dei divieti all’utilizzo delle prestazioni occasionali:

  • è previsto un limite di durata (per tutte le prestazioni occasionali) pari a 280 ore nell’arco dello stesso anno civile;
  • non è possibile fare ricorso a prestazioni di lavoro occasionali da parte di lavoratori con i quali l’utilizzatore abbia in corso un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione coordinata e continuativa;
  • non è possibile fare ricorso a prestazione di lavoro occasionali nel caso in cui l’utilizzatore abbia avuto con il prestatore, entro i sei mesi precedenti la prevista prestazione di lavoro occasionale, un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione coordinata e continuativa;
  • il ricorso al contratto di prestazione occasionale non è ammesso ai datori di lavoro che hanno alle proprie dipendenze più di cinque lavoratori subordinati a tempo indeterminato. Al riguardo, allo scopo di semplificare gli adempimenti da parte degli utilizzatori e di favorire lo svolgimento delle attività di controllo preventivo automatizzato da parte dell’INPS, il periodo da assumere a riferimento per il calcolo della forza aziendale con rapporto di lavoro a tempo indeterminato è il semestre che va dall’ottavo al terzo mese antecedente la data dello svolgimento della prestazione lavorativa occasionale.

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12. Il patto di non concorrenza post-contrattuale nel lavoro subordinato

Il patto di non concorrenza post-contrattuale nel lavoro subordinato

Nei contratti di lavoro subordinato viene a volte inserito dal datore di lavoro una clausola contenente il c.d. patto di non concorrenza post-contrattuale, che viene previsto specialmente nei rapporti di lavoro con i dirigenti.

La norma codicistica di riferimento è contenuta nell’art. 2125 del codice civile, che definisce il patto di non concorrenza come il “patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto”, stabilendo le seguenti tre condizioni di validità del patto stesso, il quale deve:

  • risultare da atto scritto;
  • prevedere un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro;
  • avere ad oggetto un vincolo di non concorrenza a carico del dipendente contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

Riguardo alla durata del vincolo, l’art. 2125 del codice civile prevede che:

  • tale patto non può comunque essere superiore a cinque anni se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi;
  • se viene pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura sopra indicata.

Riguardo alla quantificazione del corrispettivo del patto di non concorrenza e alla determinazione delle relative modalità di pagamento, la norma codicistica summenzionata lascia piena autonomia alle parti.

Il corrispettivo, ossia la remunerazione della (temporanea) limitazione della libertà del lavoratore di utilizzare le proprie capacità e competenze professionali, è quindi uno dei punti da sempre più delicati e discussi in materia di patto di non concorrenza.

Su tale punto la giurisprudenza è intervenuta più volte al fine di delimitare l’autonomia lasciata alle parti dall’art. 2125 del codice civile nell’ambito della “ragionevolezza” e della “congruità”.

Infatti la giurisprudenza è uniforme nel ritenere che – pur restando riservato, quanto alla sua determinazione, all’autonomia delle parti – il corrispettivo del patto di non concorrenza deve essere determinato o determinabile al momento della stipula del patto stesso e deve essere “congruo” in relazione all’oggetto, alla durata e all’ampiezza territoriale del vincolo di non concorrenza in capo al lavoratore. In mancanza di tali requisiti il patto è da considerarsi nullo.

Più precisamente, a seconda della misura del vincolo imposto al lavoratore, sono stati ritenuti come “congrui” corrispettivi compresi tra il 15% e il 35% della retribuzione annua lorda del dipendente a condizione che la capacità lavorativa del prestatore di lavoro non venisse totalmente inibita.

Al pari della quantificazione del corrispettivo del patto di non concorrenza è lasciata, come detto, all’autonomia delle parti anche la determinazione delle modalità di pagamento.

In proposito la giurisprudenza è unanime nel ritenere che il pagamento del corrispettivo del patto di non concorrenza possa avvenire alla conclusione del rapporto di lavoro in un’unica soluzione o in più rate concordate dalle parti sia nel loro ammontare che nella loro tempistica, mentre invece non è univoca nel ritenere legittima in generale la facoltà per il datore di lavoro di corrispondere detto corrispettivo nel corso del rapporto di lavoro, che viene consentita solo a determinate condizioni.

Difatti, a pena di nullità, un orientamento giurisprudenziale pone le seguenti due condizioni di legittimità per il pagamento del corrispettivo del patto nel corso del rapporto di lavoro:

  • la quota periodica normalmente mensile versata a titolo di corrispettivo del patto deve essere scorporata dalla retribuzione ed evidenziata in busta paga;
  • tale remunerazione deve comunque consistere in un importo complessivo determinato o determinabile al momento della stipula del patto.

Pertanto si pone il problema che nel caso di rapporto a tempo indeterminato, la seconda condizione sopra specificata non può essere certamente rispettata se il corrispettivo viene pagato in quote fisse mensili o comunque periodiche, posto che al momento della stipula è impossibile stabilirne l’esatto ammontare.

Un’eventuale soluzione a questa criticità potrebbe essere quella di:

  • costruire una remunerazione che preveda un tetto minimo del corrispettivo del patto di non concorrenza, che sia rispondente nel caso specifico al criterio della “congruità” e della “ragionevolezza”; e
  • pattuire che l’eventuale quota di tale tetto minimo di corrispettivo non ancora versata al momento della cessazione del rapporto di lavoro venga corrisposta al dipendente in seguito a tale cessazione.

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11. A partire dall’1 gennaio 2018 assunzioni agevolate per i giovani lavoratori

A partire dall’1 gennaio 2018 assunzioni agevolate per i giovani lavoratori

Le novità in materia di lavoro contenute nella Legge di Bilancio 2018 riguardano principalmente le assunzioni agevolate per i giovani disoccupati da parte di datori di lavoro che nei 6 mesi precedenti l’assunzione non hanno proceduto a licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo ovvero a licenziamenti collettivi nella medesima unità produttiva.

Dall’1 gennaio 2018, per 3 anni, i suddetti datori di lavoro potranno usufruire di uno sgravio del 50% dei contributi INPS sulle assunzioni di disoccupati che non hanno ancora compiuto 30 anni d’età o 35 anni d’età limitatamente al 2018, nell’importo massimo pari a € 3.000,00 su base annua, riparametrato e applicato su base mensile.

Tale sgravio consiste nell’esonero dal versamento della metà dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro (fino a un massimo di € 3.000,00 all’anno) per un periodo massimo di 36 mesi (3 anni), con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL.

Dall’1 gennaio 2018 le aziende potranno usufruire dello stesso esonero dal pagamento del 50% dei contributi INPS per le conversioni di rapporti di apprendistato o a termine e più precisamente: (i) nel caso di prosecuzione di un contratto di apprendistato in contratto a tempo indeterminato a partire dall’1 gennaio 2018, indipendentemente dall’età anagrafica del lavoratore alla data della prosecuzione; (ii) nel caso di conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato a partire al 1° gennaio 2018, fermo restando il possesso dei suddetti requisiti anagrafici alla data di conversione.

Lo sgravio dei contributi INPS sale al 100% (sempre con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL e fino al limite di € 3.000,00 all’anno), in caso di assunzione entro 6 mesi dall’acquisizione del titolo di studio di studenti che con il datore di lavoro hanno svolto periodi di alternanza scuola – lavoro per almeno il 30% del monte ore previsto per tale attività ovvero hanno svolto con il datore di lavoro percorsi di apprendistato per la qualifica o il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore, il certificato di specializzazione tecnica superiore o periodi di apprendistato in alta formazione.

Nella Legge di Bilancio 2018 viene precisato che tali sgravi si applicano a tutti i datori di lavoro che a partire dall’1 gennaio 2018 effettueranno assunzioni con contratto di lavoro a tutele crescenti di giovani che non hanno compiuto i 30 anni di età e non risultano essere stati occupati a tempo indeterminato con lo stesso o con altri datori di lavoro. Limitatamente alle assunzioni che verranno effettuate nel corso dell’anno 2018 gli incentivi in esame saranno riconosciuti anche in caso di assunzione di persone che non hanno compiuto 35 anni d’età.

Nel caso in cui il lavoratore, per la cui assunzione a tempo indeterminato sia stato già parzialmente fruito l’esonero, venga nuovamente assunto da altri datori di lavoro, il beneficio dello sgravio contributivo sarà riconosciuto per il periodo residuo utile alla piena fruizione, e cioè la restante parte dei 36 mesi di durata complessiva, indipendentemente dall’età anagrafica del giovane lavoratore alla data in cui avverrà la nuova assunzione.

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