Recesso dal contratto di distribuzione e violazione del principio di buona fede
Con la sentenza n. 691 del 5 febbraio 2018 la Corte d’Appello di Roma è tornata a pronunciarsi sul noto “caso Renault” dopo il rinvio della Suprema Corte ad altra sezione della medesima Corte d’Appello di Roma, a seguito della cassazione della precedente sentenza del giudice di secondo grado.
Nel caso di specie alcuni ex concessionari della Renault avevano impugnato il recesso a loro comunicato dalla casa automobilistica, lamentandone l’irragionevolezza e l’illegittimità, pur se i relativi contratti di concessione di vendita attribuissero alla Renault il diritto di sciogliere unilateralmente dal contratto senza alcuna giustificazione. I giudici di merito avevano rigettato le domande degli attori, affermando la piena liceità della condotta della convenuta che, per la preventiva scelta operata allatto della determinazione del contenuto del contratto, appariva legittimata a sottrarsi ad “ogni controllo causale sull’esercizio di tale potere”.
La Corte di Cassazione è stata chiamata a vagliare la legittimità della decisione che aveva ritenuto l’esercizio di un recesso ad nutum non assoggettabile ad una forma di controllo fondata sul principio di buona fede ed è pervenuta a conclusioni molto chiare almeno sul punto della sussistenza di un preciso e ineludibile dovere di valutazione che il giudice non può omettere di osservare.
In particolare, la Corte di Cassazione ha stabilito che la pretesa fatta valere dai concessionari “revocati” va valutata accertando se il recesso comunicato loro dalla Renault sia stato (nonostante l’avvenuta intimazione del preavviso) “inaspettato e sorprendente” e se, quindi, la società concedente con il proprio comportamento abbia generato un “legittimo affidamento” circa la continuazione del rapporto.
In altre parole, si tratta di verificare se il recesso della casa automobilistica concedente abbia o meno integrato una violazione del dovere di buona fede.
Secondo la Corte di Cassazione, tale verifica, da un lato, non è condizionata e circoscritta dalla necessità di riscontrare particolari circostanze qualificanti (ad es. il dolo, inteso come intenzione di nuocere), ma, dall’altro, deve limitarsi ad un controllo di tipo esclusivamente procedurale (il controllo sulle modalità dell’agire), che non può spingersi a sindacare i motivi (o lo “scopo”) per il quale il recesso ad nutum è stato posto in essere.
Chiariti i limiti dell’indagine demandata alla Corte d’Appello di Roma come giudice del rinvio, la sentenza in esame nulla ha accertato in ordine alla legittimità o meno della scelta strategica di Renault di recedere dai contratti con i concessionari, posto che non è possibile – secondo il principio elaborato dalla Corte di Cassazione e sopra esposto – sindacare su di una scelta di mercato, andando ad incidere sull’autonomia negoziale di un soggetto, nel caso di specie la casa automobilistica Renault, in mancanza di prove sulle finalità ulteriori e diverse rispetto a quelle contrattuali idonee a giustificare il recesso ad nutum della casa madre.
In altri termini, la seconda Sezione della Corte d’Appello di Roma non ha ritenuto agevole accedere alla tesi dei concessionari “revocati” (secondo i quali lo scopo ultroneo ed anomalo della società concedente sarebbe stato l’inserimento di ex dirigenti Renault nella rete di vendita al fine di evitare gravosi impegni economici legati allo scioglimento del rapporto di lavoro con questi ultimi), a fronte di una comprovata e già nota scelta di riorganizzazione aziendale da parte dei vertici della stessa Renault.
La Corte d’Appello di Roma ha ritenuto invece che il comportamento di Renault non sia stato improntato ai necessari criteri di correttezza e lealtà sotto il profilo della buona fede oggettiva nell’ambito dell’esecuzione del rapporto contrattuale, in considerazione del breve lasso di tempo intercorso tra:
- l’imposizione da parte della Renault ai propri concessionari di investimenti e obiettivi minimi, preordinati a realizzare nuovi show room, ad incrementare pubblicità, ad aprire sub-concessionarie, ecc.; e
- la comunicazione di recesso con preavviso di dodici mesi, che non consentiva ai destinatari di ammortizzare gli impegni economici che gran parte dei concessionari “revocati” aveva sostenuto per incrementi di capitale, per la costruzione di sedi, per l’acquisto di notevoli quantità di materiale di ricambio e per l’assunzione di personale.
L’affidamento su una ragionevole continuità del rapporto, desumibile dalla (allora) recente sottoscrizione di patti aggiuntivi al contratto di concessione, contenenti l’accettazione delle richieste di incremento del fatturato e sforzi programmatici, è risultato così frustrato dalla scelta improvvisa di estinguere ogni rapporto, senza dare ai concessionari la possibilità di rinegoziare la durata del contratto, ovvero di proporre in ipotesi un’indennità di fine rapporto idonea a tamponare gli effetti economici pregiudizievoli, o ancora di accedere ad un preavviso più lungo di quello stabilito nel contratto.
Avendo accertato che il recesso ad nutum della società concedente è stato esercitato con modalità contrarie a buona fede, la Corte di Appello di Roma come giudice del rinvio si è quindi posta il problema di accertare, caso per caso, quale sia stato il danno subito da ciascun concessionario, determinando l’ammontare tenuto anche conto che, almeno quindici dei ventiquattro concessionari revocati, hanno stipulato nuovi contratti di concessione con altre case automobilistiche, utilizzando le strutture commerciali già realizzate.
In proposito la Corte di Appello di Roma ha escluso che ai concessionari debba essere riconosciuta un’indennità di avviamento o di clientela come previsto nel contratto di agenzia, richiamandosi sul punto alla Corte di Cassazione che, nella sentenza con cui ha cassato la sentenza di secondo grado, ha espressamente escluso qualsiasi rapporto di analogia fra il contratto di concessione di vendita e il contratto di agenzia, anche nel caso in cui il contratto di concessione di vendita si estingua per effetto del recesso della società concedente, esercitato con modalità contrarie alla buona fede.
Con la sentenza in esame la Corte di Appello di Roma ha infine esaminato, caso per caso, sulla base di un giudizio di diritto caratterizzato dalla c.d. equità correttiva (o integrativa), le posizioni dei singoli concessionari, ipotizzando che, a causa del comportamento della Renault, tutti i soggetti “revocati” avessero fatto affidamento su una prosecuzione del rapporto per un periodo compreso tra due e cinque anni.
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